01 giugno 2022 15:42

Succede ogni volta che un cittadino italiano viene rapito all’estero ed è capitato di nuovo, purtroppo, il 19 maggio scorso. La notizia, non appena divulgata, per qualche ora risuona ovunque: dall’apertura dei telegiornali alle prime pagine dei quotidiani nazionali. Ma poi, fino alla liberazione del malcapitato connazionale di turno (che molto spesso avviene dopo alcuni anni), scende il silenzio.

Il Sahel, ampia striscia di terra semi arida a cavallo tra il deserto del Sahara e le verdeggianti foreste dell’Africa subsahariana, nel recente passato ha ripetutamente vissuto questo “effetto elastico” tipico dei mezzi d’informazione mainstream occidentali. Quando un cittadino italiano cade nella rete dei gruppi armati saheliani – ce ne sono stati diversi, da Rossella Urru e Maria Sandra Mariani, rapite nel 2011-2012 in Algeria e rilasciate in Mali nel 2012, fino a padre Pierluigi Maccalli e Nicola Chiacchio, liberati a ottobre del 2020 dopo oltre, rispettivamente, due anni e un anno e mezzo di prigionia – il riflettore si accende, riscoprendo mappe e toponimi fino ad allora relegati nel cassetto dei conflitti dimenticati. È il caso del Mali, che ciclicamente riappare nell’attualità dei giornali europei a causa del susseguirsi di sequestri commessi dai gruppi neo jihadisti che qui, da dieci anni ormai, trovano dimora e terreno fertile per proliferare.

I paesi del Sahel.

Sono circa le otto di sera del 19 maggio 2022 a Sincina, un villaggio rurale a undici chilometri da Koutiala, cittadina della regione di Sikasso, nel sudest del Mali, non lontana dalla frontiera con il Burkina Faso. Un commando di quattro uomini armati irrompe in casa della “famiglia Coulibaly”, come è stata ribattezzata dalla popolazione locale, e con la forza preleva Giovanni Langone (43 anni), il padre Rocco Antonio Langone (64) e la madre Maria Donata Caivano (conosciuta come Donatella, di 62 anni), prima di darsi alla macchia.

Secondo diverse fonti concordanti, Giovanni Langone vive da tempo in Mali, dove nell’autunno del 2019 è stato raggiunto dai genitori, originari di Ruoti, in provincia di Potenza, e residenti a Triuggio, in Lombardia. Rapiti insieme a un cittadino del Togo, che pare sia il loro cuoco, i tre italiani fanno parte dei Testimoni di Geova e si trovavano nel villaggio di Sincina dall’inizio della pandemia di covid-19 per opere di missione.

Nonostante il pericolo del fare proselitismo in un paese dove oltre il 98 per cento della popolazione è di fede musulmana e dove, dal 2012, è in corso un conflitto multidimensionale sempre più esteso, i tre italiani, incuranti anche di un esplicito avvertimento che gli sarebbe stato recapitato qualche mese fa, stavano progettando di costruire una sala del regno (luogo di culto dei Testimoni di Geova) proprio a Sincina.

La zona, in realtà, era una delle poche del territorio maliano fino ad allora parzialmente risparmiata dalle forze jihadiste, ma non è nuova ai sequestri di occidentali. Il 7 febbraio 2017, infatti, era stata la volta della suora colombiana Gloria Cecilia Narváez, prelevata nella vicina Karangasso (zona di Koutiala) e liberata il 9 ottobre 2021 dopo quattro anni e otto mesi di prigionia. Il rapimento dei tre italiani sopraggiunge in una particolare fase di espansionismo a sud del fenomeno jihadista. L’entrata nel conflitto di circa mille mercenari russi del famigerato gruppo Wagner (vicino al Cremlino), da inizio anno impegnati in violente operazioni militari al fianco dei soldati maliani, starebbe infatti spingendo le diverse sigle jihadiste saheliane a riposizionarsi e a cercare nuovi canali di approvvigionamento e finanziamento.

Secondo le prime ricostruzioni, in attesa di conferma (il sequestro non è ancora stato rivendicato), a occuparsi materialmente dell’operazione sarebbero stati banditi comuni esperti della zona, che successivamente avrebbero rivenduto gli ostaggi alla Katiba Macina, branca qaedista attiva nel centro del Mali, incaricata di recapitarli ai compagni del nord. Un periplo simile a quello toccato a Luca Tacchetto ed Edith Blais, sequestrati nel dicembre 2018 nel sudest del Burkina Faso e successivamente condotti in Mali, così come a padre Maccalli, prelevato in Niger e successivamente trasportato, con diversi mezzi, fino al nord del Mali, feudo del Gruppo a sostegno dell’islam e dei musulmani (Gsim), da marzo 2017 nuovo nome di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), multinazionale del terrore specializzata in rapimenti di occidentali.

Trattative riservate
Citato dal sito d’informazione Africa Express, Serge Daniel, esperto giornalista originario del Benin che da molti anni lavora in Mali per Radio France internationale (Rfi) e altri mezzi d’informazione francesi, sostiene che le forze di sicurezza maliane avrebbero individuato e seguito con discrezione il convoglio di pick-up che ha portato gli ostaggi nel nord del paese. Secondo una fonte bene informata che preferisce restare anonima, inoltre, i servizi di sicurezza italiani, coadiuvati dall’unità di crisi della Farnesina, fallito un primo tentativo di mediazione con i banditi per una liberazione lampo, si sono avvalsi dell’aiuto di un negoziatore locale, partito il 27 maggio da Bamako alla volta del nord del Mali per cercare informazioni e contatti per trattare il rilascio dei tre testimoni di Geova.

Il fatto che l’Italia – come altri paesi occidentali, come per esempio la Francia, la Spagna o il Canada – sia solita trattare coi jihadisti e pagare un riscatto in denaro, non è un segreto, anche se non è mai stato ufficialmente ammesso (né smentito) dalle autorità competenti. La stessa fonte riporta che il valore della vita di un italiano sequestrato nel Sahel si aggira attorno ai cinque milioni di euro, cifra che varia a seconda dello spessore del profilo personale e del tempo trascorso in prigionia. Con il passare degli anni, infatti, cresce la pressione esercitata sui governi occidentali da parte dell’opinione pubblica e delle famiglie degli ostaggi, facendo così aumentare il costo del loro rilascio. In questo macabro mercato i cittadini francesi valgono più degli italiani, gli spagnoli poco meno e così via. Un “prezzario” che i neo jihadisti saheliani conoscono bene e su cui si basano per intraprendere i negoziati con gli emissari dei governi stranieri.

Recentemente i gruppi jihadisti, oltre al denaro, come contropartita hanno cominciato a chiedere anche lo scambio di prigionieri, come successo in occasione del rilascio di padre Maccalli, di Nicola Chiacchio, della cooperante francese Sophie Petronin e del politico maliano Soumaila Cisse, quando oltre 250 mujahidin sono stati rilasciati dalle carceri di Bamako. In quel frangente, nell’ottobre del 2020, un video che ritraeva il leader del Gsim Iyad Ag Ghali, ricercato numero uno nel Sahel, intento ad accogliere felicemente i compagni liberati e a banchettare con loro su una lunga tavola imbandita, ha fatto il giro del web.

Al netto della propaganda neojihadista, i rapimenti restano una delle principali fonti di finanziamento dei diversi gruppi armati saheliani, che attualmente detengono una decina di cittadini occidentali, oltre a centinaia di soldati, insegnanti, religiosi e funzionari governativi maliani. L’8 aprile 2021 Olivier Dubois, giornalista francese basato a Bamako, è scomparso a Gao, nell’est del Mali. Sabato 21 maggio 2022 due maliani, di cui uno dipendente di una ong straniera, sono stati rapiti nel nord del paese.

Quanto tempo bisognerà aspettare prima di ritrovare il Mali nei titoli dei mezzi d’informazione italiani ed europei? Una domanda che, dal 19 maggio scorso, si pongono con angoscia i parenti e gli amici dei tre ostaggi italiani, ultime vittime collaterali di una delle tante guerre dimenticate.

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