28 settembre 2020 14:15

“È stata l’esperienza più incredibile e straordinaria della mia vita”, mi ha raccontato la veterana delle lotte per i diritti delle donne Mara Clarke. “È stata una follia. Ma al tempo stesso è stato meraviglioso. E ha dimostrato che sorelle e fratelli possono ottenere dei risultati quando lo vogliono davvero”.

A dicembre 2019, tre mesi prima che l’epidemia di coronavirus venisse dichiarata pandemia globale, un gruppo di donne provenienti da tutta Europa ha lanciato un’audace risposta femminista alle draconiane leggi contro l’aborto in Polonia: Abortion without borders. Da allora dicono di aver aiutato più di 2.200 persone con informazioni, soldi e supporto per poter abortire in sicurezza all’estero o ordinando pillole abortive online.

Le restrizioni per il covid-19, e in particolare la chiusura delle frontiere e le quarantene obbligatorie, hanno minacciato questa nuova iniziativa, mentre alcuni gruppi ultraconservatori in Polonia sono stati accusati di usare la crisi per promuovere il loro programma antiabortista.

Queste donne però hanno alle spalle anni di lotte contro tutto e tutti per i diritti riproduttivi, e hanno preso in mano la situazione.

Dall’Irlanda alla Polonia
“C’è una storia lunghissima di persone che aiutano altre persone ad abortire”, dice Clarke. E lei sa bene di cosa parla. È un’esperta in materia. Nata negli Stati Uniti, Clarke vive in Gran Bretagna. Nel 2009 ha fondato un’associazione non profit, la Abortion support network, per finanziare i viaggi delle donne dall’Irlanda, dall’Irlanda del Nord e dall’Isola di Man al Regno Unito per poter abortire in sicurezza e interrompere gravidanze indesiderate. (L’anno scorso alla lista si sono aggiunte Gibilterra e Malta). Il Regno Unito ha leggi più progressiste sull’aborto rispetto a questi paesi e la strategia dell’organizzazione era quella di sfruttare questa situazione per contrastare quelle che ai loro occhi erano restrizioni obsolete ai diritti delle donne.

Nel 2018 il referendum sull’aborto in Irlanda ha cambiato in modo profondo il quadro. La vittoria schiacciante del Sì ha portato nel 2019 alla sua legalizzazione, nonostante la dura campagna condotta da movimenti antiabortisti con legami internazionali.

Pochi mesi dopo il referendum, Clarke ha incontrato altre attiviste a una conferenza in Francia e ha chiesto loro dove avrebbero dovuto indirizzare le energie dopo il voto in Irlanda. “Cosa ne pensate della Polonia?”, ha chiesto. Il settembre successivo alcune di loro si sono incontrate di nuovo per marciare, scandire slogan ed esibire cartelli a una manifestazione organizzata a Varsavia in occasione della giornata internazionale per l’aborto sicuro (il 28 settembre) e l’idea di Clarke ha cominciato a prendere forma.

Le donne di Abortion without borders sono diversissime tra loro ma sono unite da un obiettivo comune

Marina Slaikovska, un’attivista lettone che vive nei Paesi Basi, era una delle persone incontrate da Clarke a Varsavia. Come molte altre donne coinvolte nell’attivismo a favore dei diritti riproduttivi, ha un altro lavoro (fa la biologa). Ricorda i timori sulla possibilità di riuscire davvero a creare una rete. “Poi tutto è andato avanti molto rapidamente”.

Clarke ha raccontato di un incontro cruciale tenutosi ad Amsterdam a metà 2019, che ha gettato le basi per il lancio di Abortion without borders: “In due giorni tutte noi abbiamo trovato un accordo sulla forma e sul funzionamento dell’associazione. Niente controversie, niente litigi, tantissimi snack vegani, Karolina che faceva i suoi ricami a favore dell’aborto e una sensazione davvero speciale che pervadeva la sala”.

Oggi Clarke descrive le donne coinvolte in Abortion without borders come un gruppo di persone diversissime tra loro ma unite da un obiettivo e da un approccio chiari e comuni. “Veniamo da percorsi politici molto diversi, in molti casi anche da ambienti economici diversi, ma siamo tutte unite dall’impegno a far abortire le donne che hanno scelto di farlo. È la cosa più importante da fare per noi, tutto il resto è secondario”.

Le leggi polacche e le proteste
In Europa la Polonia ha le leggi più severe sull’aborto (con l’eccezione di Malta). Le donne possono interrompere legalmente una gravidanza solo in caso di stupro, incesto, gravi anomalie del feto o se la loro vita è in pericolo. Nel 2016 una proposta ultraconservatrice che voleva vietare l’aborto anche in questi casi è stata ritirata solo dopo le grandi proteste organizzate dalle donne polacche durante i cosiddetti lunedì neri.

Ad aprile di quest’anno un disegno di legge simile è stato promosso durante il lockdown, ma è stato accolto in tutto il paese da proteste organizzate seguendo le regole del distanziamento sociale. Automobili strombazzanti con il simbolo delle proteste – un fulmine rosso – scorrazzavano per strade semivuote e manifestanti con le mascherine portavano cartelli, bandiere e ombrelli con su scritti gli slogan della protesta. (Dopo le manifestazioni la proposta di legge è stata rinviata alla commissione per un “ulteriore lavoro”, il che vuol dire che potrebbe essere reintrodotta in seguito).

Ufficialmente in Polonia nel 2018 ci sono stati solo mille aborti. Il 2018 è l’ultimo anno per il quale sono disponibili dei dati, ma secondo le attiviste si tratta di cifre non affidabili. “Non sappiamo quante interruzioni di gravidanza ci siano oggi. Conosciamo solo il numero trasmesso dagli ospedali al ministero della salute”, dice Karolina Więckiewicz.

Un manifesto del movimento per il diritto all’aborto a Cracovia, Polonia, 14 marzo 2020. (Artur Widak, NurPhoto via Getty Images)

Tuttavia, oltre a quelli effettuati in ospedale, bisogna considerare che c’è un certo numero di aborti praticati in cliniche private all’estero, attraverso pillole abortive ordinate online oppure con altri mezzi illegali, non regolamentati e potenzialmente rischiosi.

Come Clarke, anche Więckiewicz è un’esperta in questo settore. È un’avvocata di Abortion dream team, un’organizzazione polacca nata a ottobre 2016 nel pieno delle proteste dei lunedì neri con l’obiettivo di informare le donne e avviare un dibattito pubblico sull’aborto. Tuttavia, Więckiewicz dice di essersi imbattuta “nell’attivismo a favore del diritto all’aborto un po’ per caso”. Più di dieci anni prima lavorava allo sportello legale della Federazione per le donne e la pianificazione familiare. A un certo punto, ricorda, “hanno cominciato a chiamarci, sia me personalmente sia lo sportello, per chiedere informazioni sulle pillole”.

Stiamo parlando delle pillole abortive che consentono alle donne di interrompere gravidanze indesiderate prima della dodicesima settimana, e senza ricorso a interventi chirurgici. Esistono da decenni ma è ancora difficile accedervi perfino nei paesi in cui sono legali, come l’Italia.

“Avrei potuto dire loro ‘Chiamate Justina o il Kobiety w Sieci’”, racconta Więckiewicz riferendosi a un’importante attivista e a un altro gruppo per la difesa dei diritti riproduttivi. “Ma ho capito che a volte non puoi dire ‘chiama qualcun altro’. Perché potrebbero non farlo”. È stato un momento rivelatore per lei. Fare l’avvocato e fare campagne d’informazione non bastava, doveva passare all’azione diretta: “Ho capito che la parte più importante del mio lavoro è aiutare le persone”.

Sostegno a distanza
Justina Wydrzyńska è la donna di cui parla Więckiewicz. Si batte per aiutare le donne ad abortire in modo sicuro da molto più tempo di Więckiewicz o di Clarke. Un punto cruciale su cui insiste è il sostegno alle donne anche da lontano, online.

Tutto è cominciato con il suo aborto, quattordici anni fa. “Ho sperimentato in prima persona cosa significa essere spaventata e avere attacchi di panico a causa di una gravidanza indesiderata, non avere informazioni né qualcuno con cui parlare”, racconta.

“Cercavo di procurarmi informazioni sulle pillole, ma non ci riuscivo. Online c’era molto materiale su cui non potevo fare affidamento. Perciò ho pensato che sarebbe stato bello se ci fosse stato un posto o una persona a cui rivolgersi per avere informazioni su, per esempio, come prendere in modo corretto le pillole”.

Poco dopo aver abortito in rete ha conosciuto un’altra donna, Magda, a sua volta indignata per la mancanza di informazioni. Magda sapeva come gestire un sito. Assieme hanno fondato il gruppo Kobiety w Sieci, il primo forum online polacco su cui trovare informazioni senza pregiudizi sull’aborto.

Il primo giorno di Abortion without borders una donna ha chiamato il numero verde solo per ringraziare

Wydrzyńska parla per esperienza personale: “Non voglio che altre persone si sentano sole, come è capitato a me”. Anche il suo sito oggi fa parte della rete Abortion without borders. In tutto sono sei gruppi in quattro paesi: Polonia, Germania, Paesi Bassi e Gran Bretagna. Insieme collaborano per aiutare le donne polacche ad avere consigli, sostegno e accesso, attraverso internet, a un aborto sicuro nel paese o all’estero.

Mentre un medico o chiunque altro venga denunciato in Polonia per aver aiutato una donna ad abortire illegalmente rischia fino a tre anni di carcere, Abortion without borders dichiara di poter lavorare in tutta sicurezza perché aiuta le donne in modo indiretto, ad esempio ordinando le pillole, fissando gli appuntamenti e organizzando i viaggi.

Può sembrare rischioso, ma Clarke spiega tutto con realismo: “In Polonia abbiamo un servizio di assistenza telefonica gestito da Kobiety w Sieci. Quando una persona telefona è indirizzata a una delle organizzazioni che fanno parte della rete e che si trovano fuori dalla Polonia, così da ottenere l’aiuto di cui ha bisogno”. Lei e le altre attiviste del gruppo lo sanno a memoria: se una donna è incinta da meno di tre settimane può ordinare online le pillole abortive e prenderle a casa; dopo la quattordicesima settimana può abortire in Germania, fino alla ventiduesima nei Paesi Bassi, fino alla ventiquattresima in Inghilterra.

Le sfide del covid-19
Il primo giorno di Abortion without borders una donna ha chiamato il numero verde solo per ringraziare. Aveva abortito tre mesi prima, da sola, e sperava che nessun’altra dovesse vivere un’esperienza simile.

Więckiewicz ricorda che in quel momento il suo cuore “è andato in mille pezzi” perché sapeva che era impossibile aiutare tutte quelle che ne avevano bisogno. “Penso però che, tenuto conto del numero di telefonate che riceviamo, del numero di persone che si registrano su Kobiety w Sieci o che entrano in contatto con noi su Facebook, Instagram o via email, stiamo facendo un ottimo lavoro. Aumenta di giorno in giorno, ma è meraviglioso che la gente sappia di poterci contattare”.

Poi è arrivato il covid-19. “Che paradosso organizzare un’iniziativa chiamata Abortion without borders quando la prima cosa che ha fatto l’Europa è stata chiudere le frontiere”, afferma Kinga Jelinska, un’attivista e antropologa culturale polacca che vive ad Amsterdam. Cinque anni fa è stata tra le fondatrici dell’organizzazione non profit Women help women (che ora fa parte della rete Abortion without borders).

“Avevamo davvero paura che la pandemia ci fermasse”, ha aggiunto Zuzanna Dziuban, attivista e docente universitaria polacca che vive a Berlino. Alla fine “solo due persone che hanno contattato la rete perché volevano andare all’estero per abortire non ci sono riuscite”. Abortion without borders ha continuato a ordinare le pillole abortive anche durante le restrizioni ed è riuscita a ottenere delle eccezioni durante la quarantena (per esempio fornendo le prove che dovevano aiutare donne che avevano bisogno di trattamenti medici non rinviabili).

I primi giorni della pandemia sono stati “molto stressanti”, afferma Dziuban. “Era straordinario vedere il modo in cui lavoravamo insieme, in gruppo, per risolvere immediatamente i problemi. Penso che senza questa rete le cose sarebbero state molto, molto più difficili”.

“Hai la sensazione di aver davvero realizzato qualcosa quando, alla fine della settimana, sai che quattro persone sono riuscite ad andare a Berlino per interrompere la loro gravidanza indesiderata, e che molte altre in Polonia hanno ricevuto le pillole. Ce l’hanno fatta nonostante leggi stupide, oppressive e patriarcali”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con openDemocracy.

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