25 ottobre 2018 10:22

“Sai che cos’è un elefante bianco? C’è un’antica storia cinese che racconta di un elefante bianco che era bello, raro e costoso, ma non serviva a niente e mangiava tantissimo. Ecco, il ponte tra Hong Kong, Macao e Zhuhai sembrerebbe proprio un animale del genere”.

Forse la storia non è proprio così (sembra che gli elefanti bianchi fossero effettivamente animali sacri quanto inutili e costosi posseduti dai re del sudest asiatico), ma ci siamo capiti. Per Au, la grande opera inaugurata il 23 ottobre dal presidente Xi Jinping davanti a 700 invitati è ciò che noi chiameremmo “cattedrale nel deserto”.

Au è un attivista di Hong Kong. Dopo aver partecipato al movimento per la democrazia del 2014, si è battuto contro le grandi opere che stanno investendo l’ex colonia britannica e nel frattempo lavora per una organizzazione non governativa che si occupa di diritti del lavoro.

Con i suoi 55 chilometri, Gang Zhu Ao Daqiao (alla lettera “grande ponte Hzm”, dalle iniziali delle tre città) è l’attraversamento marittimo più lungo del mondo e il sesto ponte in termini assoluti. Chi lo percorrerà, “sorvolerà” il mare per 23 chilometri, viaggerà su un paio di isole artificiali costruite ex novo nel golfo creato dall’estuario del fiume delle Perle e si inabisserà per 6,7 chilometri in un tunnel sottomarino che serve a non disturbare il traffico navale e che raggiunge la profondità di ben 44 metri.

Il suo valore pratico è da verificare, quello simbolico è chiaro: i mezzi d’informazione cinesi hanno strombazzato che ora le due zone amministrative speciali di Hong Kong e Macao sono più integrate con la Cina continentale, cioè la madrepatria. Per ribadirlo fisicamente, di fianco a Xi Jinping c’era Carrie Lam, “amministratrice delegata” di Hong Kong, che ha insistito sui benefici che la grande opera porterà alla città: maggiore afflusso di turisti e accentuata centralità per l’isola di Lantau, dove c’è l’aeroporto. Nei discorsi inaugurali, si è anche magnificato il livello ormai eccelso dell’ingegneria cinese.

Il distretto delle aperture
Il ponte è nelle intenzioni il raccordo principale dell’“Area della Grande Baia”, Dawan Qu in mandarino. A orecchie smaliziate, il nome ricorderà la San Francisco Bay Area in California e le analogie non mancano: se Hong Kong può svolgere il ruolo di San Francisco come polo turistico e finanziario, la Silicon valley è qui ben rappresentata da Shenzhen, mentre il distretto industriale di Oakland fa il paio con Dongguan, Zhuhai e tutto il delta del fiume delle Perle.

Macao, in quanto patria del gioco d’azzardo, prolunga invece idealmente la “Bay Area” fino a Las Vegas.

C’è però una notevole differenza tra l’antesignana californiana e YueGangAo (acronimo di Guangdong, Hong Kong e Macao). Là, gli abitanti sono otto milioni, qui tra i 117 e i 120 milioni, quattordici volte tanti. Da questo punto di vista, anche un paragone con i nostri distretti industriali sarebbe fuorviante.

È dal 2005 che il governo cinese punta sulla creazione di enormi aree metropolitane (chengshi qun), che integrano tra loro città preesistenti. In questo progetto converge sia la tradizione cinese “dal punto alla superficie” – creare zone dove si sperimenta l’innovazione politica, sociale, economica e, se tutto va bene, allargare poi l’esperimento a tutto il paese – sia l’idea ormai consolidata che l’urbanizzazione è la ricetta per fare il salto nelle economie ad alto valore aggiunto. Le tre maggiori megalopoli in corso d’opera sono Pechino-Tianjin-Hebei (JingJinJi, 130 milioni di abitanti), la Grande Baia appunto (117-120 milioni) e il delta dello Yangtze (Changjiang Sanjiaozhou, 90 milioni), che comprende Shanghai e i centri limitrofi.

Dawan Qu è erede del vecchio delta del fiume delle Perle, cioè quella parte di provincia del Guangdong dove si sperimentarono le riforme e aperture di Deng Xiaoping, il “nuovo inizio” di cui in questi giorni si festeggia il 40° anniversario. Nel 1978, a partire da Shenzhen, Deng diede il via libera all’impresa privata e così la Cina divenne la “fabbrica del mondo”.

L’importanza dell’area fu ribadita nel 1992 quando, dopo il massacro di Tiananmen del 1989 e un periodo di basso profilo, il primo atto simbolico dello stesso Deng fu proprio un viaggio al sud, nel cuore manifatturiero cinese, per rilanciare il percorso verso lo sviluppo.

Il presidente cinese Xi Jinping durante la cerimonia di apertura del ponte a Zhuhai, il 23 ottobre 2018. (Aly Song, Reuters/Contrasto)

Nei giorni prima e dopo l’inaugurazione del ponte, Xi Jinping ha fatto un itinerario analogo in quella zona, celebrando i fasti tecnologici di Shenzhen e cercando di tranquillizzare i piccoli imprenditori privati, che temono la guerra commerciale con gli Stati Uniti e si lagnano perché i crediti bancari vanno in genere alle grandi imprese di stato e non a loro. La visita è stata annunciata da una lettera aperta in cui Xi promette “incrollabile sostegno” al settore privato, di cui si riconosce il contributo storico allo sviluppo della Cina. A Zhuhai, approdo del ponte, il “leader di tutto” ha visitato la fabbrica della Greer, il maggior produttore mondiale di condizionatori domestici, e ha ribadito che la Cina deve essere sempre più autosufficiente, non dipendere cioè dalla tecnologia altrui.

Sangue e sudore
Le chengshi qun devono diventare proprio questo: delle enormi città-stato che garantiscano sia la produzione di innovazione, sia quella di merci ad alto valore aggiunto, sia il consumo delle stesse.

Tuttavia, c’è chi critica il grande ponte e non solo perché è stato definito un progetto “sangue e sudore”, dato che per costruirlo sono morti 19 operai e altri 600 hanno subìto incidenti sul lavoro di diversa entità. Per Au e quelli come lui, si tratta di una grande opera che arricchisce le grandi aziende immobiliari e delle costruzioni, togliendo risorse al welfare di Hong Kong.

I costi totali non sono noti, ma si sa che sono schizzati verso l’alto per problemi logistici nella costruzione delle isole artificiali e per il ritardo di due anni rispetto ai tempi previsti inizialmente. E si sa soprattutto che Hong Kong avrebbe contribuito con circa 15 miliardi di dollari, una cifra che secondo Au “è il 43 per cento dell’intero progetto”. Tutto questo, mentre i benefici non sono per ora garantiti.

“Il progetto del ponte si inserisce in un contesto di grandi opere che fanno gli interessi della Cina e non di Hong Kong”, dice l’attivista. “Le infrastrutture e lo sviluppo immobiliare servono a fare della città il miglior trampolino per gli affari delle grandi corporation, sia locali sia cinesi, con soldi che dovrebbero invece essere destinati ai servizi sociali. Mi riferisco soprattutto alla prevista costruzione di isole artificiali a ovest della Hong Kong Island e al North East New Territories New Development, un’enorme speculazione immobiliare al confine tra Hong Kong e Shenzhen”.

Questi progetti sono giustificati dal governo cittadino come soluzioni al problema dell’alloggio, così impellente a Hong Kong: crei nuovo spazio per le case – che sia un’isola artificiale o un terreno convertito a uso residenziale dove prima c’erano campi e foreste – e automaticamente gli insostenibili prezzi immobiliari dell’ex colonia britannica dovrebbero abbassarsi.

“Ci sono movimenti hongkonghini di destra, i cosiddetti nativisti, che vi si oppongono perché pensano servano a dare alloggio agli immigrati dalla Cina continentale e quindi a sciogliere l’identità locale nel mare di quella cinese. Ma io non sono d’accordo”, dice Au. “Il governo di Hong Kong non tratta per niente bene gli immigrati cinesi e tratta invece benissimo le imprese. Questo per me è il problema, non l’identità. E poi diciamocelo, siamo tutti figli, nipoti o bisnipoti di cinesi arrivati qui dalla Cina continentale”.

Secondo l’attivista, dalla riconsegna del territorio al controllo cinese (handover) del 1997, dopo più di un secolo di governo britannico, la politica dell’amministrazione locale ha fatto gli interessi della Cina e non della popolazione. “Prima c’è stata l’assimilazione della borsa di Hong Kong, dove le imprese quotate sono ormai soprattutto cinesi; poi si è passati all’utilizzo dell’identità hongkonghina da parte di ricchi cinesi e di imprese che vogliono sbarcare all’estero, attraverso l’utilizzo del dollaro di Hong Kong, che è convertibile, e l’acquisizione del passaporto locale, che ti porta ovunque”. E adesso, le grandi opere, come il mega ponte.

“Bisogna considerare”, continua Au, “che sono stati ultimati di recente la ferrovia ad alta velocità che ci collega con il continente e l’altro ponte tra Shenzhen e Zhongshan, che rende ridondante questo. Soprattutto se si pensa che il traghetto veloce tra Hong Kong e Macao ci mette un’ora da Central, mentre con il ponte, in autobus, i tempi di percorrenza dallo stesso luogo sono di circa due ore”.

E poi ci sono gli aeroporti internazionali, una vera mania in Cina.

“Nell’area del delta ne esistono già cinque, il cielo è saturo e i ritardi si accumulano”. Chiunque sia abituato a volare da queste parti, ce l’ha ben presente. “In passato tutti questi progetti erano percepiti dalla gente come occasioni per aumentare la competitività della propria zona, adesso invece si comincia a pensare anche ai costi e alla qualità della vita”.

Così, le proteste non mancano. Secondo l’attivista, le manifestazioni contro la ferrovia ad alta velocità hanno avuto picchi di diecimila partecipanti così come quelle – ancora in corso – contro il progetto immobiliare North East New Territories.

Non si è invece registrata grande partecipazione alle manifestazioni contro il ponte, forse perché nel suo slancio verso il mare non attraversa luoghi abitati. Così gli hongkonghini mugugnano sui costi e sollevano qualche preoccupazione sul destino della susa indopacifica (il delfino bianco cinese) che popola la baia, mentre non è ancora chiaro se sulla carreggiata si guiderà a sinistra, come a Hong Kong, o a destra, come in Cina. Ma intanto, l’elefante bianco è lì per restarci.

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