16 marzo 2021 12:26

A volte, perfino oggi, il mio lavoro migliore nasce dalla disperazione, lottando per trovare un’idea.

Nel 1989 il Guardian lo ha proclamato “fotografo del decennio”, Life ha scelto un suo scatto per rappresentare le foto che hanno segnato gli anni ottanta, Arles gli ha consegnato le chiavi della città. Molti di noi conoscono bene le copertine di dischi come A broken frame o Construction time again dei Depeche Mode, Ocean rain degli Echo & The Bunnymen, Look sharp! di Joe Jackson. È entrato negli uffici, nei cantieri, tra operai, impiegati e dirigenti, e ne è uscito con delle scene a metà tra un romanzo di Kafka e un film di Cronenberg nel momento prima che esplodano teste e viscere.

Ma chi è Brian Griffin?

A dircelo, ovviamente solo in parte, è proprio lui. Nel 2020 ha messo a frutto i vari lockdown e l’isolamento pandemico per scrivere un libro autobiografico, Black Country dada, finanziato su Kickstarter e concepito insieme ai grafici dello studio Cafeteria di Sheffield.

“Crescere tra le fabbriche della Black Country tra gli anni cinquanta e sessanta con pochi soldi non è stato facile, ma di sicuro ha nutrito la mia immaginazione”. La Black Country è un’area delle Midlands occidentali, in Inghilterra. Ne fa parte Birmingham, dove Griffin nasce nel 1948 in una tipica casa a schiera, due stanze giù e due su, e con i servizi igienici essenziali, un dettaglio da considerare un privilegio. La scuola lo tiene lontano dalla strada, ma a 16 anni deve andare a lavorare per aiutare la famiglia. Si ritrova a fare l’impiegato per una centrale nucleare, si annoia da morire e come se non bastasse la sua ragazza lo molla per il manager di un grande magazzino.

A sinistra: Marshall McLuhan, Weekend Magazine, Toronto, Canada, 1979. A destra: Mosca, Russia, 1974. (Brian Griffin)

A Griffin piace abbastanza la fotografia, ma non è posseduto da un sacro fuoco o da una vocazione precisa, è soprattutto una via di fuga. Nel 1968 fa domanda in tre scuole: solo il Manchester college of art lo contatta per un colloquio e lui ammette candidamente che è stato scelto perché avevano un bisogno disperato di studenti. Infatti al tempo la fotografia non è ritenuta un mestiere così affascinante, nonostante il glamour della swinging London. Inoltre Birmingham non è Londra, e neanche Manchester lo è, soprattutto alla fine degli anni sessanta. “Sembravamo dei disadattati che non sapevano come stare al mondo, ma insieme eravamo felici”. Il giovane Brian saluta i genitori, dicendogli che diventerà più famoso di David Bailey, loro si trattengono dal ridergli in faccia e si rammaricano per un figlio che preferisce l’incertezza a quel bel posto in ufficio.

Non a caso il capitolo sulla vita universitaria si chiama Birth (nascita). La passione e la dedizione di Griffin per la fotografia cresce parallelamente alla profonda amicizia che lo lega a due compagni di corso, Martin Parr e Daniel Meadows. Dagli Stati Uniti arrivano i libri di Garry Winogrand e Lee Friedlander: è il momento di essere ambiziosi, di sperimentare, entusiasmarsi e discutere. Ma Griffin non può fallire, vuole diventare un grande fotografo. Non sta semplicemente proseguendo gli studi, ma ha smesso di lavorare per proiettarsi verso un orizzonte incerto e avventuroso. Non può sbagliare.

Rush hour, London bridge, 1974. (Brian Griffin)

Nel 1972 si diploma con un servizio sui campionati di ballo a Blackpool. Le foto sono sottoesposte, nonostante i tentativi in camera oscura per migliorare la situazione. Alla fine degli studi si sente impreparato dal punto di vista tecnico e la determinazione lascia il passo allo sconforto. Tuttavia il suo lavoro colpisce Roland Schenk, art director della rivista Management Today, che gli offre una possibilità. Questo primo importante rapporto professionale lo aiuta a mettere a fuoco il suo stile, tirando fuori gli stimoli che gli hanno lasciato il paesaggio industriale di Birmingham, il cinema espressionista tedesco e il costruttivismo russo.

Griffin trova la sua strada e nella seconda metà degli anni settanta la carriera decolla. A un certo punto si stanca dei manager – anche se ritornerà a occuparsene – e si dedica alle rockstar, in cerca di nuove sfide. Impara a confrontarsi con le altalenanti bizzarrie di musicisti come Iggy Pop, che al primo giorno di set gli dà il benvenuto tirando giù la zip dei jeans per fare la pipì nel cestino davanti a lui. Per fortuna arrivano anche collaborazioni più serene e durature, come quella con gli Echo and The Bunnymen, con cui si ritrova in una caverna in Cornovaglia per Ocean rain e tra i ghiacci senza sole dell’Islanda per Porcupine.

A sinistra: Douglas Adams, 1986. A destra: Richard Butler degli Psychedelic Furs per l’album Mirror moves, 1984. (Brian Griffin)

I ritratti si rivelano un terreno prezioso di sperimentazione con cui Griffin diventa un fotografo d’invenzioni analogiche, perché bisogna pur sempre avere un’idea per raccontare qualcosa o qualcuno. In un’epoca senza fotoritocco tocca scervellarsi per creare incastri magici tra tempi di esposizione e diaframmi, magari lanciando qualche pallina da tennis o costruendo una scacchiera speciale. Griffin lo fa da maestro.

Black Country dada procede per aneddoti, intervallati da foto su uno sfondo dominato dal rosso, il bianco e il nero, gli stessi colori di cui erano dipinte le pareti del suo primo studio di Rotherhithe street, a Londra. I racconti sono schietti, a volte accurati nei dettagli tecnici, senza indugiare e arrovellarsi in riflessioni teoriche. Come scrive W.M. Hunt nell’introduzione, Brian Griffin risolve problemi, sa narrare una storia in poche battute e non ha paura di avvolgere tutto con la sua luce.

Fino all’11 aprile Black Country dada è anche una mostra virtuale, organizzata dal Format festival di Derby. Il 27 marzo è previsto un incontro con Brian Griffin. Il libro si può comprare qui.

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