21 giugno 2019 13:04

Questo articolo è uscito il 13 dicembre 2002 nel numero 467 di Internazionale. L’originale era uscito sul quotidiano statunitense The New York Times, con il titolo A woman’s work.

L’orrore arrivò a Butare, sonnolenta cittadina del Ruanda sbiadita dal sole, nella primavera del 1994. Gli squadroni della morte hutu, armati di machete e bastoni cosparsi di chiodi, erano avanzati per tutta la campagna uccidendo, saccheggiando e bruciando. Avevano creato posti di blocco per fermare i tutsi in fuga. La terza settimana di aprile, mentre il genocidio ruandese raggiungeva il suo apice, decine di migliaia di cadaveri putrefatti giacevano per le strade di Kigali, la capitale del paese.

Butare, una roccaforte dei tutsi e degli hutu moderati che si erano opposti agli ordini di genocidio del governo, era il prossimo obiettivo. Gli abitanti potevano sentire i colpi delle armi da fuoco provenienti dalle colline a ovest; di notte osservavano i bagliori dei villaggi vicini dati alle fiamme. Bande di hutu armati si radunarono presto attorno alla città, ma gli abitanti terrorizzati ne difesero i confini.

Infuriato per la rivolta di Butare, il governo provvisorio del Ruanda inviò in missione Pauline Nyiramasuhuko, ministro della famiglia e della condizione femminile. Prima di diventare una delle donne più potenti nel governo ruandese, Pauline – come tutti la chiamavano – era cresciuta in una piccola comune agricola appena fuori Butare. Era una celebrità locale, nota ad alcuni come la figlia preferita di Butare. Il suo ritorno avrebbe convinto la popolazione a seguire gli ordini del governo.

Subito dopo l’arrivo in città di Pauline, auto munite di altoparlanti percorsero le strade secondarie annunciando che la Croce rossa era arrivata in un vicino stadio per fornire aiuti alimentari e garantire un rifugio sicuro. Il 25 aprile migliaia di tutsi disperati si erano radunati nello stadio.

I miliziani
Era una trappola. Anziché ricevere cibo e riparo, i rifugiati furono circondati da uomini con cartucciere a tracolla e foglie di banana acuminate sulla testa: erano interahamwe, miliziani estremisti hutu il cui nome significa “quelli che attaccano insieme”. Secondo un testimone oculare con cui ho parlato, a soprintendere le operazioni dietro le quinte c’era Pauline, una donna corpulenta di media statura, con gli occhiali e un colorato scialle africano, che allora aveva 48 anni.

Prima di diventare la massima responsabile per la condizione femminile, Pauline era stata un’assistente sociale. Aveva percorso in lungo e in largo le zone rurali, tenendo conferenze sul ruolo della donna e fornendo informazioni sull’assistenza infantile e la prevenzione dell’aids. Anche i suoi giorni come ministro erano stati dedicati a migliorare la vita di donne e bambini. Ma come mi ha raccontato un contadino di trent’anni, Foster Mivumbi, allo stadio Pauline assunse un’altra veste. Mivumbi, che ha confessato di aver preso parte al massacro, mi ha detto che Pauline spronò gli interahamwe, ordinando loro: “Prima di uccidere le donne, dovete stuprarle”.

Le donne tutsi furono così separate dalla folla e trascinate in un bosco per essere violentate. Secondo il racconto di Mivumbi, tornata allo stadio Pauline fece un cenno con le braccia, quindi osservò in silenzio mentre gli interahamwe aprivano il fuoco delle mitragliatrici e lanciavano bombe a mano contro il resto dei rifugiati. Gli hutu finirono i sopravvissuti a colpi di machete. Ci volle un’ora. A mezzogiorno era tutto finito. Pauline rimase finché un bulldozer non cominciò ad accatastare i cadaveri per seppellirli in una fossa vicina (gli avvocati di Pauline hanno negato che la donna abbia preso parte alle atrocità di Butare).

Poco dopo, secondo un altro testimone, Pauline arrivò in un complesso dove un gruppo di interahamwe sorvegliava settanta donne e ragazze tutsi. Un interahamwe, un giovane di nome Emmanuel Nsabimana, mi ha detto che Pauline ordinò a lui e agli altri di bruciare le donne. Nsabimana ha raccontato che un interahamwe fece notare che non disponevano di sufficiente benzina. “Pauline disse: ‘Non preoccupatevi, ho delle taniche piene nella mia auto. Andate a prenderle e ammazzatele’. Andai verso l’auto e presi le taniche. Poi Pauline disse: ‘Perché non le stuprate prima di ucciderle?’. Ma era tutto il giorno che uccidevamo ed eravamo stanchi. Versammo semplicemente la benzina dentro ad alcune bottiglie e la spargemmo tra le donne, quindi gli demmo fuoco”.

Quasi contemporaneamente, degli interahamwe arrivarono nell’ospedale locale, dove si trovava un’unità di Medici senza frontiere. Rose, una giovane tutsi che aveva cercato rifugio lì, guardò con terrore i soldati mentre assalivano il complesso (la donna, che oggi è sotto protezione militare, ha chiesto di non citare il suo cognome). “Dissero che Pauline gli aveva dato il permesso di dare la caccia alle ragazze tutsi, che erano troppo orgogliose”, mi ha raccontato Rose. “Lei era il ministro, perciò erano liberi di farlo”. Pauline aveva spinto i soldati a considerare lo stupro come una ricompensa.

Il figlio di Pauline
A guidare gli interahamwe all’ospedale fu l’unico figlio maschio di Pauline, uno studente di 24 anni di nome Arsene Shalom Ntahobali. Shalom era alto più di un metro e ottanta, leggermente sovrappeso e sempre ben rasato. Indossava una tuta da ginnastica e scarpe da tennis, e portava appese alla cintura alcune bombe a mano. Rose ha detto che Shalom, che annunciò ripetutamente di avere il “permesso” di sua madre di stuprare le donne tutsi, la trovò acquattata in un angolo del reparto maternità. La trascinò ai suoi piedi e poi la violentò contro il muro. Prima di lasciarla per inseguire alcuni studenti che si nascondevano lì vicino, le promise che sarebbe tornato per ucciderla. Ma prima che potesse farlo, Rose fuggì dall’ospedale e corse dalla sua famiglia.

Le hanno detto che un solo tutsi sarebbe stato lasciato in vita per riferire a Dio il il corso degli eventi. Lei doveva essere quel testimone

Alcuni giorni dopo un ufficiale locale bussò alla sua porta, informandola che tutti i tutsi sarebbero stati sterminati, ma uno di loro sarebbe stato lasciato in vita per riferire a Dio il corso degli eventi. Rose doveva essere quel testimone. Il suo addestramento nel nuovo ruolo cominciò in quello stesso istante. “I soldati hutu trascinarono fuori mia madre, le strapparono i vestiti e la stuprarono con un machete”. Quel primo giorno venti familiari furono massacrati davanti ai suoi occhi.

Rose mi ha raccontato che fino all’inizio di luglio, quando finì il genocidio, fu costretta ad assistere a un’atrocità dopo l’altra. Anche se l’obiettivo primario degli interahamwe era uccidere, gli uomini sembravano particolarmente ossessionati da ciò che facevano ai corpi delle donne. “Li ho visti stuprare due ragazze con delle lance e poi bruciare i loro peli pubici. Mi hanno portato in un posto dove una donna stava partorendo. Il bambino era era quasi uscito del tutto: lo hanno trafitto”. Lungo il percorso Rose si sentì ripetere dai soldati: “Facciamo quello che ha ordinato Pauline Nyiramasuhuko”.

Ho incontrato Rose a Butare. Oggi ha 32 anni ed è una bella donna con gli zigomi alti e i lineamenti minuti. Eravamo in un albergo soffocante, Rose indossava un tailleur rosso e parlando si chinava leggermente in avanti, lo sguardo fisso. Ha raccontato che dal genocidio soffre di ulcera e ogni tanto cade in stati di semincoscienza, tormentata dal delirio e dalla sofferenza. “La gente pensa che io sia posseduta”. Questi attacchi, ha detto, spaventano i figli: i due nati prima del 1994 e i quattro orfani del genocidio che ha adottato in seguito. Mentre parlavamo era chiaro che Rose stava raccontando la sua storia terribile il più attentamente possibile, per assolvere finalmente al suo ruolo di testimone, ma in modo molto diverso da come era stato previsto.

Non si saprà mai esattamente quanti ruandesi furono massacrati tra l’aprile e il luglio 1994. Human Rights Watch ipotizza la cifra di almeno 500mila persone, mentre le Nazioni Unite stimano che in quel periodo morirono tra gli 800mila e il milione di ruandesi. Qualunque sia il totale, le dimensioni della carneficina e la sua concentrazione (il Ruanda è poco più grande della Sicilia) fanno di questo genocidio il più feroce massacro di massa della storia. Tre quarti della popolazione tutsi furono sterminati.

Un altro genere di orrore
Comprensibilmente l’attenzione del mondo si è concentrata sulla dimensione del massacro ruandese. Ma i pubblici ministeri e i giudici del Tribunale penale internazionale per il Ruanda (Tpir), con sede ad Arusha, in Tanzania, ora cominciano a riconoscere un altro genere di orrore, lasciato nell’ombra. Anche se la maggior parte delle donne furono uccise prima di poter raccontare le loro storie, un rapporto delle Nazioni Unite ha concluso che durante il genocidio almeno 250mila ruandesi furono stuprate. Alcune furono penetrate con lance, canne di fucile, bottiglie o gli stami delle piante di banane. Gli organi sessuali furono mutilati con machete, acqua bollente e acido; i seni furono asportati. Secondo uno studio, nella sola provincia di Butare ci sono più di trentamila donne sopravvissute agli stupri. Molte altre furono uccise dopo essere state violentate.

Albert e suo fratello minore nel distretto di Huye, nel sud del Ruanda, 2017. Loro madre, Agnes, è diventata la schiave sessuale di un hutu durante il genocidio. (Whitney Shefte, The Washington Post via Getty Images)

Sono dati sconvolgenti. Ma ancora più scioccante è che molti di questi crimini furono a quanto pare ispirati e orchestrati da Pauline Nyiramasuhuko, il cui vero incarico era la tutela, l’istruzione e il rafforzamento delle donne del Ruanda.

Nel luglio 1994 Pauline fuggì dal Ruanda unendosi all’esodo di oltre un milione di hutu che temevano la rappresaglia del Fronte patriottico ruandese (Fpr), l’esercito ribelle tutsi in avanzata verso la capitale. Dopo aver trovato riparo in un campo profughi nella Repubblica Democratica del Congo, alla fine riuscì a entrare in Kenya, dove visse da latitante per quasi tre anni. Il 18 luglio 1997 fu catturata a Nairobi dalle autorità keniane e internazionali (suo figlio Shalom fu preso sei giorni dopo, nel negozio di alimentari che gestiva a Nairobi). Dopo essere stata interrogata dagli inquirenti, Pauline fu trasferita con il figlio in Tanzania, dove entrambi furono affidati al Tribunale internazionale di Arusha.

La prima donna
Pauline deve rispondere di undici capi d’imputazione, tra cui genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. È la prima donna a essere accusata di questi crimini in un tribunale internazionale. Ed è la prima donna a essere imputata di stupro come crimine contro l’umanità (suo figlio deve rispondere di dieci capi d’accusa, per i quali si è dichiarato innocente).

Pauline e Shalom sono processati insieme ad altri quattro leader hutu di Butare, anch’essi accusati di genocidio. Pauline è per lo più accusata di aver istigato dei crimini anziché di averli compiuti. Tuttavia, secondo un documento preparato dagli investigatori del tribunale in vista del processo, un testimone – dal nome in codice Q.C. – vide un leader tutsi morire “per mano di Nyiramasuhuko” (il rapporto non specifica l’arma usata da Pauline). Con ogni probabilità gli avvocati di ognuno dei sei imputati cominceranno la loro difesa nel 2004 e forse chiameranno a deporre più di cento testimoni mentre il processo si trascinerà per almeno altri due anni. In questo tribunale la giustizia si è mossa molto lentamente: in sette anni sono state emesse solo otto condanne e un’assoluzione.

Pauline Nyiramasuhuko è nata nel 1946 tra lussureggianti piantagioni di banane e verdi valli avvolte nella foschia. I suoi genitori erano poveri agricoltori di Ndora, un piccolo insediamento lungo la strada per Butare, dieci chilometri a est della città. Familiari e amici la ricordano come una ragazza più ambiziosa e disciplinata che intelligente.

Con quattro figli Pauline non lasciò mai il lavoro e alla fine si iscrisse alla facoltà di legge, una delle poche ruandesi ad averlo mai fatto

Alle superiori Pauline diventò amica di Agathe Kanziga, futura moglie del presidente hutu Juvenal Habyarimana. Fu un incontro cruciale. Dopo essersi diplomata, Pauline lasciò Butare per Kigali, dove entrò nel ministero per gli affari sociali, che allora stava istituendo una rete di centri per insegnare alle donne come prendersi cura delle loro famiglie, fornendo consigli di base su come cucinare e crescere i figli. Quando Pauline aveva appena 22 anni, Agathe la aiutò a scavalcare l’iter burocratico per diventare ispettore nazionale del ministero.

Nel 1968 Pauline sposò Maurice Ntahobari, che più tardi sarebbe diventato presidente dell’assemblea nazionale ruandese, quindi ministro dell’istruzione superiore e infine rettore dell’università nazionale di Butare.

A 24 anni, incinta di nove mesi, Pauline, già madre di una bambina, andò in Israele per una missione governativa e lì partorì il figlio Shalom (da qui il nome). Tornò quindi a Kigali, dove negli anni che seguirono ebbe altre due figlie. Ma Pauline non abbandonò mai il lavoro e alla fine si iscrisse alla facoltà di legge, una delle poche donne ruandesi ad averlo mai fatto. “Aveva quattro bambini, ma voleva ancora tornare a studiare”, ha detto meravigliata la sua amica Juliana Niyirora. Già responsabile locale del Movimento repubblicano nazionale democratico (Mrnd), nel 1992 fu nominata ministro della famiglia e della condizione femminile.

Un grattacapo
Desiderosa di imporsi in una struttura partitica dominata dagli uomini in una società patriarcale come quella del Ruanda, Pauline scoprì presto che la strada verso il successo politico la riportava al luogo di origine. Butare era diventata il più grande grattacapo del governo. Sede dell’università nazionale e di un istituto di ricerca scientifica – e con la più alta concentrazione di tutsi del Ruanda – Butare aveva i cittadini più illuminati del paese. La città era stata in gran parte immune all’estremismo hutu: l’Mrnd non era mai riuscito a radicarsi qui. Ma Pauline cercò di cambiare tutto questo con una campagna di intimidazione. Girava per Butare in compagnia di militanti estremisti del partito, innalzando barricate nelle strade, paralizzando il traffico e sconvolgendo la vita delle città. Le periodiche incursioni di Pauline diventarono note come le “giornate fantasma”, in cui Butare restava immobile.

Pauline rimase presto coinvolta nell’ideologia antitutsi del suo partito. “Prima del 1994 non c’era razzismo a Butare”, ha detto Leoncie Mukamisha, vecchia compagna di scuola di Pauline che lavorò sotto di lei al ministero. “Poi arrivò lei e organizzò le manifestazioni in città. I giornali locali la descrivevano come una pazza scatenata”. Leoncie dice che le azioni di Pauline le fecero conquistare le simpatie del presidente, che ne riconobbe l’ubbidienza e l’odio virulento per i tutsi e le assegnò come consiglieri alcuni ideologi estremisti hutu.

Forse non sarà mai possibile stabilire che cosa abbia motivato le azioni di Pauline. Potrebbe veramente aver provato rabbia verso i tutsi; potrebbe essere stata una semplice opportunista, assetata di potere. Ma certamente nel 1994 il suo zelo antitutsi diventò noto a tutti. Durante il genocidio Pauline pronunciò discorsi incendiari ai microfoni di Radio Ruanda. Un testimone ha ricordato una sua dichiarazione: “Siamo tutti membri della milizia”, disse Pauline. “Dobbiamo collaborare per snidare i membri del Fronte patriottico ruandese”.

Nella sua confessione di genocidio e crimini contro l’umanità, l’ex primo ministro hutu Jean Kambanda identifica i membri del suo sancta sanctorum, dove fu redatto il piano di sterminio. Kambanda fa solo cinque nomi: Pauline Nyiramasuhuko è tra questi.

Durante la mia visita a Butare due giovani donne, Mary Mukangoga, 24 anni, e Chantal Kantarama, 28, mi hanno accompagnato nel centro della città, alla prefettura, dove s’incontrarono per la prima volta e diventarono amiche. “Andai alla prefettura perché c’erano altri rifugiati”, ha detto Mary con un filo di voce. “Preferivo essere uccisa quando eravamo tutti insieme”.

Chantal, invece, nelle prime settimane del genocidio era stata rapita e stuprata da due uomini hutu. Riuscì a scappare e si rifugiò in una scuola vicino alla prefettura. Un giorno sentì Pauline annunciare attraverso un microfono: “Ho un problema. Adesso gli scarafaggi sono vicino alla mia casa. Venite domani e aiutatemi. Aiutatemi a sbarazzarmi di loro”. Chantal fuggì nella prefettura. Il giorno dopo Pauline giunse nell’edificio insieme a Shalom. Madre e figlio arrivarono con un gruppo di giovani interahamwe e selezionarono le ragazze da violentare.

Le due giovani donne diventarono parte di un gruppo di sei schiave che furono tenute nella prefettura e stuprate, ripetutamente e insieme, ogni notte per settimane. Poi un giorno le donne furono gettate in una vicina fossa, piena di cadaveri. La fossa, di circa quaranta metri quadrati, è oggi semiricoperta di calcinacci ed erbacce. Chantal mi ha portato a vederla, Si è fermata sul ciglio e poi si è voltata indietro, rifiutandosi di guardare in basso. “Usavano i machete per uccidere le persone che resistevano e le buttavano nella buca”, ha spiegato. Ha cominciato a piangere. È rimasta dentro la fossa per una notte e un giorno; poi, la seconda notte, si è arrampicata sui corpi gettati alla rinfusa per uscire da lì.

L’eredità più insidiosa
Ho riaccompagnato Chantal a casa sua, una linda capanna di fango in un animato e polveroso quartiere, pieno di negozi e di bestiame per le strade. Chantal è sposata e ha due bambini: tra le donne sopravvissute al genocidio e agli stupri che ho incontrato è l’unica a essere sposata. Suo marito è a conoscenza di ciò che le è successo. Ma per migliaia di sopravvissute ruandesi una delle eredità più insidiose degli stupri è lo stigma, e l’inevitabile isolamento. Nella società ruandese per una donna stuprata è quasi impossibile sposarsi. Una testimone che ha deposto contro Pauline ad Arusha si sarebbe dovuta sposare il mese dopo, ma quando il fidanzato seppe della sua testimonianza ruppe il fidanzamento.

C’è poi la generazione di bambini nati dagli stupri. Ufficialmente i casi registrati sono almeno cinquemila, ma con ogni probabilità sono molti di più.
“Hai mai visto gli occhi di una donna quando guarda il figlio nato da uno stupro?”, mi ha chiesto Sydia Nduna, consulente del Comitato internazionale per i soccorsi al Ruanda (Ircr), impegnata in un programma per ridurre la violenza sessuale. “È uno sguardo di una tristezza che non puoi immaginare”. Gli effetti degli stupri in Ruanda si faranno sentire per generazioni. “Lo stupro costringe le vittime a vivere con le conseguenze, i danni, i figli”, ha spiegato Nduna.

Sappiamo che il governo faceva uscire dagli ospedali i pazienti affetti da aids proprio per formare i battaglioni di stupratori

A peggiorare le cose, gli stupri, per lo più compiuti da molti uomini in successione, furono spesso accompagnati da altre forme di tortura fisica e furono eseguiti in pubblico per moltiplicare il terrore e la degradazione. Molte donne li temevano al punto da implorare di essere uccise. Spesso gli stupri erano un preludio alla morte, ma a volte le vittime non erano uccise bensì ripetutamente violentate e lasciate in vita: l’umiliazione avrebbe così colpito non solo la vittima ma anche le persone a lei più vicine. Altre volte le donne erano usate come un altro tipo di strumento: vicina alla morte, o addirittura già cadavere, una donna veniva violentata pubblicamente come mezzo per unire i gruppi di interahamwe.

Una morte lenta
Ma l’esibizione pubblica e la distruzione non si fermavano all’atto dello stupro. Molte donne furono deliberatamente lasciate in vita solo perché morissero più tardi, lentamente. Due donne che ho incontrato fuori Butare, Francina Mukamazina e Liberata Munganyinka, stanno morendo di aids. Hanno contratto la malattia attraverso gli stupri subiti. “La mia più grande preoccupazione è cosa succederà ai miei figli quando non ci sarò più”, mi ha detto Francina. Questi bambini sono realmente fragili come teme la donna: uno studio delle Nazioni Unite sui bambini ruandesi nati nel periodo della guerra ha concluso che il 31 per cento ha assistito ad almeno uno stupro o un’aggressione sessuale e il 70 per cento è testimone di uccisioni. Le figlie di Francina e Liberata sono sopravvissute ma hanno visto massacrare i fratelli e violentare le madri. Cresceranno accanto ai figli nati da uno stupro, e dovranno vivere tutti insieme tra risentimenti diversi e contraddittori.

Ho incontrato Mary più tardi, quel pomeriggio, ad alcuni chilometri di distanza, lungo una strada sterrata. Sedeva da sola nella sua casa, una capanna di fango di appena due metri quadrati con una piccola finestrella. Mi ha raccontato che gli stupri furono la sua prima e unica esperienza sessuale. Poi, distogliendo lo sguardo e tormentandosi le mani, mi ha detto che cinque mesi prima aveva scoperto di avere l’aids. Due delle altre ragazze sequestrate con lei e Chantal erano già morte. Il loro destino non è l’eccezione ma la regola. Secondo una stima, il 70 per cento delle donne stuprate durante il genocidio del Ruanda ha contratto l’hiv e la maggior parte di loro alla fine ne morirà.

In un’intervista presso la sede del governo a Kigali, il presidente del Ruanda Paul Kagame ha parlato degli stupri di massa con frasi misurate, scuotendo la testa, la voce rotta dall’emozione. “Sappiamo che il governo faceva uscire dagli ospedali i pazienti affetti da aids proprio per costituire battaglioni di stupratori”. Ha sorriso mestamente, come se fosse ancora sbalordito da quel terribile piano.

L’obiettivo più diabolico degli stupri di Butare fu trasmettere una forma di morte più lenta e straziante. “Usando una malattia come un terrore apocalittico, come un’arma biologica, si annientano i genitori, si perpetua la morte di generazione in generazione”, dice Charles B. Strozier, psicoanalista e professore di storia al John Jay College of Criminal Justice di New York. “La strage continua nel tempo”.

L’uso dell’aids come arma contro le donne tutsi ha permesso ai magistrati di Arusha di considerare lo stupro come uno degli elementi principali del genocidio. “Il contagio da hiv è omicidio”, dice Silvana Arbia, procuratore del tribunale per il Ruanda. “L’aggressione sessuale è un atto di genocidio tanto quanto l’omicidio”.

Arma di guerra
Lo stupro di massa è un’arma di guerra fin dall’antichità. Secondo la leggenda, l’antica Roma fu unita dopo che Romolo e i suoi soldati terrorizzarono i loro rivali, i sabini, violentando le loro donne. Il ricorso alla violenza sessuale è documentato in conflitti che vanno dalle crociate alle guerre napoleoniche.

Fu Abraham Lincoln ad approvare le leggi che stabilirono la concezione moderna dello stupro come crimine di guerra. Nel 1863 Lincoln commissionò a Francis Lieber, un giurista esperto, di sviluppare una serie di istruzioni destinate agli eserciti governativi durante la guerra civile. Lieber citò specificamente lo stupro come un crimine abbastanza grave da comportare la pena di morte. “Il codice Lieber fu rivoluzionario”, spiega Kelly Askin, direttore dell’Istituto internazionale per la giustizia penale (Cuny). “Prima i reati sessuali erano stati ampiamente ignorati”.

Il diritto internazionale si è mostrato più reticente sul problema. “Lo stupro era considerato una sorta di danno collaterale”, dice Rhonda Copelon, professore di diritto al Cuny. “Era visto come una componente inevitabile della cultura della guerra”. Dopo la seconda guerra mondiale gli stupri delle donne cinesi da parte dei soldati giapponesi a Nanchino furono perseguiti come crimini di guerra da un tribunale internazionale. Tuttavia lo stupro era perseguito solo in congiunzione con altri crimini violenti. Lo stesso tribunale, inoltre, non perseguì la forma di violenza sessuale più istituzionalizzata, l’asservimento delle cosiddette “comfort women” (donne di piacere) da parte dell’esercito giapponese. Nel 1946 lo stupro fu decretato crimine contro l’umanità da una legge promossa dagli Alleati e destinata ai tribunali che dovevano giudicare i crimini di guerra tedeschi. La legge, però, non fu mai applicata. Solo nel 1995, il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, ha perseguito lo stupro come un grave crimine equivalente alla tortura.

L’imputato in quel processo fu un poliziotto serbo di nome Dusan Tadic. Il tribunale l’accusò di vari reati, tra cui lo stupro di una donna musulmana in un campo di prigionia bosniaco. Lo stupro fu definito crimine contro l’umanità, così come un altro reato sessuale perpetrato contro degli uomini. Tadic torturò due prigionieri musulmani, costringendo un uomo a mordere i testicoli dell’altro, che poi morì dissanguato. Le incriminazioni della corte dell’Aja stabilirono un importante precedente. Purtroppo i pubblici ministeri del tribunale furono costretti a far cadere l’accusa di stupro dopo che la vittima di Tadic si rifiutò di testimoniare per timore di rappresaglie. I procuratori ebbero tuttavia successo con l’accusa di mutilazione sessuale. Giudicato, tra i vari reati, colpevole di tortura, Tadic fu condannato a venti anni di carcere.

Danni collaterali
In Ruanda le storie di stupro avevano cominciato ad accumularsi subito dopo la fine del genocidio, per lo più attraverso interviste raccolte da gruppi come Human Rights Watch. Ma poiché la cultura ruandese scoraggia le donne dal parlare di questioni sessuali – e anche perché nella comunità giuridica restava radicata l’idea che lo stupro fosse semplicemente un “danno collaterale” – inizialmente i pubblici ministeri di Arusha non colsero il collegamento tra gli stupri e il piano di sterminio degli hutu. La svolta legale giunse nel 1998 durante il processo, ad Arusha, di Jean Paul Akayesu, il sindaco del comune ruandese di Taba.

Inizialmente Akayesu era stato accusato solo di genocidio. Ma tra i sopravvissuti che testimoniarono contro di lui ci fu una donna dal nome in codice H. (l’identità dei testimoni del tribunale è tenuta nascosta).

“Prima di andare sul banco dei testimoni, H. mi rivelò di essere stata violentata nella boscaglia”, spiega Pierre-Richard Prosper, attuale ambasciatore statunitense incaricato della questione dei crimini di guerra, che guidò l’accusa del tribunale contro Akayesu. “Disse che gli interahamwe arrivavano alla fine della giornata e cominciavano a stuprare le donne e che Akayesu era tra loro”. Cogliendo qualcosa non solo nello stupro di H. ma anche nelle intenzioni dei suoi violentatori, Prosper inviò degli investigatori in Ruanda, proprio per trovare delle donne che fossero state violentate a Taba durante la terza e la quarta settimana di aprile. Gli investigatori scoprirono che su circa cinquecento donne imprigionate quasi tutte erano state uccise e gettate in una fossa comune. Erano riuscite a scappare solo una decina, tra cui H. e un’altra donna, J.J.

Prosper chiamò a deporre J.J. Il suo racconto era terribilmente familiare: disse di essere stata trascinata via dagli interahamwe e ripetutamente stuprata. Poi accennò al fatto che Akayesu la osservava dalla porta mentre veniva violentata e incitava gli interahamwe, dicendo con il sorriso sulle labbra: “Non chiedetemi mai più che sapore ha una donna tutsi”.

L’imputazione contro Akayesu fu cambiata, e contemplò per la prima volta nella storia l’accusa di stupro come crimine contro l’umanità. Prosper sostenne che, nel fare quella battuta impertinente mentre gli interahamwe stupravano J.J, Akayesu stava di fatto ordinandogli di violentare anche le altre donne.

Il 2 settembre 1998 Akayesu è stato giudicato colpevole di genocidio e crimini contro l’umanità, tra cui lo stupro. È stato condannato a tre ergastoli, più altri ottant’anni, e trasferito in un carcere in Mali gestito dalle Nazioni Unite.

Il 10 agosto 1999, un anno dopo la condanna di Akayesu, l’imputazione di Pauline Nyiramasuhuko è stata modificata per includere lo stupro come crimine contro l’umanità. Secondo pubblici ministeri e testimoni, le sue frequenti istruzioni agli interahamwe perché violentassero le donne prima di ucciderle o perché le stuprassero invece di ammazzarle avevano innescato un clima di sadismo collettivo a Butare, tale da istigare alla violenza perfino i contadini locali.

Vittime indirette
Suzanne Bukabangwa, una contadina tutsi sopravvissuta agli stupri che ho incontrato a Butare, non aveva mai visto Pauline ma ne divenne indirettamente una vittima. I suoi vicini, contadini non istruiti, durante il genocidio l’avevano tenuta prigioniera come schiava sessuale, torturandola tutte le notti. Ricordava soprattutto due cose: lo stame delle piante di banane con cui la violentavano, lasciando il suo corpo mutilato, e la frase che pronunciava sempre uno degli uomini: “Uccideremo tutti i tutsi, e un giorno i bambini hutu dovranno chiedere a che cosa assomigliava un bambino tutsi”.

La causa contro Pauline consolida il precedente stabilito nel processo Akayesu: istigare allo stupro di massa è un crimine contro l’umanità. Ma il processo di Pauline trascende la giurisprudenza. La donna presenta al mondo un nuovo tipo di criminale. “In tutte le culture è un’idea condivisa che le donne non facciano queste cose”, dice Carolyn Nordstrom, antropologa dell’Università di Notre Dame. “La società non ha ancora un modo per parlarne, perché questo viola tutte le nostre idee sulla natura delle donne”.

La colonizzazione
Il razzismo mortale del Ruanda non potrà mai essere spiegato in modo chiaro come, per esempio, quello della Germania nazista. Il fatto che hutu e tutsi siano gruppi etnici separati è ancora argomento di dibattito. Quel che è certo è che la distinzione politica tra i due gruppi è cominciata solo dopo l’arrivo in Ruanda dei colonizzatori europei. I matrimoni misti erano diffusi da tempo ed entrambe le comunità parlavano la stessa lingua e praticavano la stessa religione. Tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento i colonizzatori tedeschi e belgi utilizzarono una discutibile logica razzista – vale a dire, che i tutsi avevano un aspetto più “caucasico” – per fare della minoranza tutsi la classe dominante, il loro referente sociale e amministrativo.

Negli anni trenta i belgi decisero di limitare l’accesso alle cariche amministrative e all’istruzione superiore ai soli tutsi, e per questo dovettero stabilire esattamente chi apparteneva a quale etnia in Ruanda. La procedura più efficace era semplicemente registrare tutti gli abitanti e chiedergli di portare con sé dei documenti che li identificassero in un senso o nell’altro. L’84 per cento della popolazione si dichiarò hutu e il 15 per cento tutsi. Considerando il numero di matrimoni misti nella storia ruandese, difficilmente questo censimento aveva qualcosa di scientifico. Inoltre, a volte i ruandesi cambiavano la propria identità etnica: i ricchi si ridefinivano tutsi e i poveri hutu.

“L’identità finì per dipendere dal modo in cui ognuno se la cavava”, dice Alison Des Forges, consulente della divisione africana di Human Rights Watch che studia il Ruanda da trent’anni. “Metà delle persone non sono chiaramente distinguibili. Ci sono stati molti matrimoni misti. Le donne che rientravano nello stereotipo tutsi – più alte, più chiare, con tratti più caucasici – diventarono desiderabili. Ma questo non significava necessariamente che appartenessero a un gruppo o all’altro”.

Pauline aveva una sua umanità, ma la riservava al figlio Shalom, che aveva
contribuito a trasformare in uno stupratore

Con il desiderio arriva anche il suo alter ego emotivo: il risentimento. Nel 1959 una rivoluzione portò al potere la maggioranza hutu. Mentre intorno al 1990 crescevano le tensioni, i politici cominciarono a diffondere una propaganda con cui descrivevano le donne tutsi come tentatrici, puttane e pervertite sessuali. Prima che cominciasse il genocidio del 1994, i giornali hutu pubblicarono una serie di vignette che raffiguravano le donne tutsi come seduttrici dissolute.

A differenza dei nazisti, spinti dal mito della superiorità ariana, gli hutu furono guidati dalla rabbia accumulata nel corso degli anni per il loro status inferiore e dal risentimento per la presunta bellezza e arroganza dei tutsi. “La propaganda ritraeva le donne tutsi come potenti e desiderabili – e perciò da distruggere”, dice Rhonda Copelon. “Quando si fa della donna una minaccia, si rafforza l’idea che la violenza contro di lei sia legittima”.

Quest’idea pericolosa, naturalmente, si realizzò appieno durante il genocidio. La convinzione collettiva delle donne hutu che le tutsi cercassero spudoratamente di rubargli i mariti concesse agli uomini hutu il permesso di violentare le loro presunte rivali per sterminarle. Visti da questa prospettiva contorta, gli uomini che stupravano non erano impegnati solo in un atto di trasgressione sessuale ma anche in un rituale purificatore. “Una volta che le donne sono considerate creature impure, qualsiasi cosa si faccia contro di loro è in nome di uno scopo superiore”, dice Robert Jay Lifton. “Diventa un motivo profondo e condiviso per eliminare il male. I tutsi devono essere uccisi tutti per realizzare l’utopia. In un certo senso, sono considerati già morti”.

Un po’ di umanità
I crimini di cui Pauline Nyiramasuhuko è accusata sono mostruosi. La sua capacità di pietà e compassione e il suo dovere professionale di proteggere i deboli l’abbandonarono, o crollarono sotto l’irresistibile brama di potere. Ma nel cercare una spiegazione ragionevole della barbarie di Pauline, mi torna in mente una cosa che mi ha detto Alison Des Forges di Human Rights Watch.

“Questo comportamento si nasconde, nemmeno troppo profondamente, in ognuno di noi. Le spiegazioni semplicistiche del genocidio permettono di stabilire una distanza tra noi e gli autori dei massacri. Sono così malvagi che non possiamo nemmeno immaginare di compiere le stesse azioni. Ma se si considera la terribile pressione sotto cui agivano, automaticamente si riafferma la loro umanità, e questo è allarmante. Si è costretti a immedesimarsi nella situazione e a chiedersi: ‘Cosa avrei fatto io?’. A volte la risposta non è incoraggiante”.

Pauline aveva una sua umanità, ma era limitata e la riservava all’unico figlio maschio, Shalom, che aveva contribuito a trasformare in uno stupratore e in un killer. In uno dei suoi ultimi momenti come pianificatrice del genocidio tornò al suo ruolo di donna e di madre.

Fu nel luglio 1994, proprio quando l’esercito hutu stava capitolando. Butare era precipitata nel caos e la parte di Pauline aveva perso. Una delle sue vicine, Lela, la scorse per strada. “Vidi Pauline e Shalom a un blocco stradale. Lei indossava un’uniforme militare e stava ancora cercando di separare tutsi e hutu, ma la confusione era enorme. La gente correva dappertutto. Stava arrivando il Fronte patriottico ruandese”. Poco dopo Lela vide di nuovo Pauline, questa volta da sola, fuori dalla sua casa: sembrava preoccupata.

“Mi colpì”, dice Lela. “Indossava una mimetica. Dritta in piedi nella sua uniforme come fosse un soldato, cercava di capire che cosa succedeva lungo la strada. Sembrava davvero furiosa. Cercava dappertutto il suo Shalom. Era il suo piccolo. Gli voleva così bene”.

(Traduzione di Nazzareno Mataldi)

Questo articolo è uscito il 13 dicembre 2002 nel numero 467 di Internazionale. L’originale era uscito sul quotidiano statunitense The New York Times, con il titolo A woman’s work.

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