13 settembre 2022 13:24

L’esercito israeliano vuole farci credere che ci sia un’“alta probabilità” che uno dei suoi soldati dell’unità d’élite Duvdevan (“ciliegia” in ebraico) si sia confuso e abbia pensato che la giornalista Shireen Abu Akleh fosse un militante palestinese armato (per via dell’elmetto che aveva in testa e il giubbotto antiproiettile che indossava).

Per questo le avrebbe sparato da un mirino telescopico in grado di ingrandire alla potenza di quattro da dentro la jeep blindata dov’era seduto, uccidendola durante un’operazione a Jenin lo scorso 11 maggio.

Da un punto di vista civile, non militare, si possono trarre due conclusioni dall’insabbiamento israeliano del caso, che i militari hanno definito una “indagine interna”. Una è che se davvero un soldato non riesce a distinguere tra giornalisti e militanti armati, e se i suoi comandanti gli consentono di continuare a sparare, malgrado la sua confusione, ben dieci proiettili contro la giornalista, allora vuol dire che l’esercito è messo abbastanza male.

“Confusione” programmata
La seconda possibilità è che questa “confusione” sia resa possibile dal fatto che l’esercito, i comandanti e i soldati hanno un profondo e crescente disprezzo per le vite dei civili palestinesi. I militari sono insomma programmati per essere “confusi” e fare questo tipo di errori, proprio perché gli è stata inculcata l’idea che sono loro le vittime, mentre è la popolazione civile palestinese che vive sotto occupazione a essere criminale.

L’annuncio dell’unità dei portavoce dell’esercito sulle conclusioni della nuova indagine sull’omicidio della giornalista, che aveva esperienza nel seguire operazioni e raid militari, trascura come prima della sua uccisione lo stesso soldato o un suo commilitone abbia colpito anche il giornalista Ali al Samoudi, ferendolo alla spalla.

Il nuovo insabbiamento parla di fuoco intenso diretto verso i veicoli militari in cui erano seduti i soldati

Il comunicato e i resoconti dei mezzi d’informazione hanno anche trascurato il fatto che, pochi minuti prima della sparatoria letale, il gruppo di giornalisti – con addosso elmetti e giubbotti antiproiettile – fosse passato vicino ai veicoli corazzati dei soldati. “Gli siamo passati di fronte ben visibili a una distanza di 200 metri, volevamo che ci vedessero e ci riconoscessero come giornalisti”, ha detto il reporter veterano Al Samoudi alla ong israeliana per i diritti umani B’Tselem. Al pari della sua collega Abu Akleh, Al Samoudi aveva già seguito parecchi avvenimenti di questo tipo e sapeva quali precauzioni servissero per rimanere al sicuro.

Altri due giornalisti presenti a Jenin che hanno fornito testimonianze alla ong – Shatha Hanaysha e Mujahid al Saadi – hanno sottolineato come il loro comportamento avesse l’obiettivo di rassicurare i soldati nelle jeep facendogli capire che erano giornalisti. Se ci fosse stata una battaglia in corso, non sarebbero passati con tranquillità davanti ai veicoli armati.

Secondo l’esercito il soldato avrebbe sparato circa venti proiettili, di cui dieci verso la zona dove si trovava Abu Akleh. Secondo B’Tselem, i soldati avrebbero sparato almeno 16 proiettili nella direzione della giornalista. Uno dei primi sei avrebbe ferito Al Samoudi, che è corso a ripararsi dietro a un’auto parcheggiata.

Altri tre giornalisti, tra cui Abu Akleh, si sono invece allontanati dal punto dove si trovavano. Poi sono partiti sette spari verso di loro, e uno ha colpito in testa Abu Akleh, da dietro. Un civile palestinese ha provato a portarla via e i soldati hanno sparato altri tre proiettili nella loro direzione. È stato un solo soldato a sparare, o di più? Non lo sappiamo.

Resistenza senza ragione
Ci sono cinque condizioni necessarie affinché l’uccisione o il ferimento di civili palestinesi da parte dell’esercito israeliano (Idf) possa passare inosservato, e non comportare complicazioni sul piano dell’informazione giornalistica. Nel caso di Abu Akleh, ne sono state soddisfatte quattro.

La prima è che l’opinione pubblica israeliana deve credere alla favola che si racconta da tempo sui cowboy, cioè i soldati dell’Idf, che vanno in battaglia in Cisgiordania contro un nemico altrettanto forte. E che combattono in scontri simmetrici con i palestinesi, i quali non hanno ragione di resistere alle invasioni militari delle loro cittadine e dei loro quartieri.

Il nuovo insabbiamento parla di fuoco intenso diretto verso i veicoli militari in cui erano seduti i soldati. È vero che molti giovani palestinesi, soprattutto nella zona di Jenin e del campo profughi, si sono procurati armi con cui si sono ripromessi di non permettere ai militari israeliani di effettuare raid senza incontrare resistenza, come se fossero cacciatori durante un safari.

Ogni tanto questi uomini armati si vedono in tv e sicuramente possono apparire minacciosi. Volti mascherati, armi imponenti, ogni tanto riescono perfino a colpire un soldato. Ma il fatto che siano considerati degli eroi dai palestinesi e che siano disposti a sacrificare le loro vite sfidando un nemico con armamenti avanzati e sofisticati non compensa il fatto che gli manchino due ingredienti fondamentali: non fanno esercitazioni e non lavorano al continuo sviluppo di nuove tattiche di combattimento in condizioni di guerriglia.

Di quale battaglia parliamo?
Fonti militari che hanno seguito “l’indagine” e sono state citate dai mezzi d’informazione hanno parlato di una sparatoria martellante, indiscriminata e potenzialmente letale diretta verso i soldati durante la battaglia. Nessuno può dubitare della paura soggettiva dei soldati, ma come si può dare credito a un resoconto nel quale sembra quasi che i militari siano civili innocenti capitati in quella zona per caso? Video girati in tempo reale e divulgati dai mezzi d’informazione internazionali tra cui la Cnn e il New York Times mostrano che non era in corso alcuna battaglia nel momento della sparatoria verso i due giornalisti lanciata dal soldato “confuso”. Se davvero dei proiettili hanno colpito le jeep, non stava succedendo in quella fase. Di quale battaglia stanno parlando?

La seconda condizione necessaria affinché la morte di un palestinese passi inosservata è il pilota automatico con cui l’opinione pubblica israeliana discredita qualsiasi testimonianza di palestinesi e qualsiasi indagine indipendente, sia essa dei mezzi d’informazione internazionali o delle organizzazioni per i diritti umani. Anche dopo la pubblicazione di tutti gli approfondimenti giornalistici l’Idf può comunque nascondersi dietro termini come “erroneamente” e “alta probabilità”. Questo avviene anche perché si sente protetta dal fatto che gli israeliani non danno ascolto a nessuna conclusione palestinese.

La terza condizione è il disinteresse degli israeliani per il crescente numero di civili palestinesi uccisi o feriti dai soldati israeliani o dagli ufficiali della polizia di frontiera, cosa che suggerisce l’uso di regole di ingaggio molto poco rigorose. B’Tselem documenta ogni caso, alcuni incidenti raggiungono l’attenzione dei lettori di Haaretz, e questo è tutto. I numeri crescenti non fanno suonare alcun campanello d’allarme – né tra l’opinione pubblica né nella knesset, le procure e i tribunali. Perché allora l’Idf dovrebbe cambiare linea e rivedere i suoi protocolli?

Guardiani della colonizzazione
La quarta condizione è che l’opinione pubblica israeliana consideri naturale e normale la missione delle forze di sicurezza – l’esercito, l’intelligence e la polizia – come guardiani e protettori dell’impresa di colonizzazione. Poiché il progetto di insediamento si sta espandendo senza opposizione internazionale, sempre più israeliani ne beneficiano direttamente o indirettamente – un’apparente normalità che i palestinesi, compresi i manifestanti disarmati, a volte osano disturbare.

E siccome in quasi tutte le case israeliane c’è un figlio-soldato con cui ci si identifica come in automatico, la capacità cognitiva di mettere in dubbio questa finta normalità è compromessa e paralizzata. Il soldato ha sempre ragione. Ecco perché anche l’Idf ha sempre ragione (a meno che, ovviamente, i comandanti maltrattino i soldati o diano loro cibo considerato immangiabile. In quel caso i genitori gridano allo scandalo).

La quinta condizione è l’anonimato delle vittime palestinesi. Quando un israeliano viene ferito in un qualsiasi attacco palestinese, lui o lei è immediatamente riconosciuta e diventa cara al pubblico israeliano. La storia della sua vita diventa nota, e il suo contesto sociale è immediatamente compreso senza bisogno di tante parole.

Quando i morti e i feriti sono palestinesi, anche se i loro nomi sono pubblicati restano degli estranei, nessuno dei pochi dettagli conosciuti può suscitare associazioni di affetto e identificazione tra gli israeliani. Nel caso di Abu Akleh, questa è esattamente la condizione che non è stata soddisfatta. Lei era sia una cittadina statunitense sia un’icona per centinaia di milioni di spettatori del canale televisivo Al Jazeera. È diventata famosa anche per coloro che non la conoscevano prima.

Tuttavia, questo non è bastato a evitare che l’Idf insabbiasse il caso. Proprio il fatto che le forze della difesa abbiano ignorato la documentazione video e le testimonianze oculari palestinesi, pubblicate da autorevoli mezzi d’informazione internazionali solleva interrogativi sul vero motivo dell’insabbiamento.

Si è trattato di un soldato confuso (o due) che ha commesso un errore, o è stato il dito leggero sul grilletto che fa parte di una routine? Forse una routine che l’Idf non ha intenzione di cambiare, perché è un mezzo con cui assicura la “governabilità” necessaria per far avanzare l’impresa di colonizzazione.

(Traduzione di Davide Lerner)

Questo articolo è uscito sul quotidiano israeliano Haaretz. Internazionale ha una newsletter settimanale che racconta cosa succede in Medio Oriente. Ci si iscrive qui.

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