15 febbraio 2019 09:43

Tra i capi di stato del mondo c’è di tutto: ci sono dei pazzi e dei cattivi, degli aguzzini e degli incapaci, ma l’Algeria è l’unico paese a permettersi il lusso di una quinta candidatura di un presidente che sei anni fa è stato vittima di un ictus cerebrale che lo ha condannato alla sedia a rotelle e che gli impedisce di parlare, quanto meno in pubblico.

Magari Abdelaziz Bouteflika non ha perso le sue facoltà intellettuali – e molti testimoni, compiacenti o meno, sembrano confermarlo. Ma in ogni caso la situazione non cambia: il prossimo 18 aprile una mummia sarà rieletta a capo del più vasto stato del Mediterraneo, grande quattro volte la Francia.

Non si sa se ridere o se piangere, forse entrambe le cose. Ma questa situazione, per quanto dannosa possa essere per l’Africa, l’Europa e l’Algeria, non è inspiegabile.

In primo luogo è la conseguenza dei circa 200mila morti della guerra civile che ha scosso il paese negli anni novanta. Interi villaggi sterminati, innumerevoli persone scomparse per mano delle forze di repressione, tortura generalizzata e intellettuali perseguitati e sgozzati da estremisti esaltati: il ricordo di questo decennio sanguinoso è così vivido che aveva già persuaso gli algerini a non unirsi alle primavere arabe del 2011.

Bouteflika continua a rimanere l’outsider che ha saputo mettere fine alla guerra civile

L’Algeria inoltre è un paese traumatizzato dalla violenza anche perché non ha dimenticato le atrocità della sua guerra di indipendenza e la feroce repressione subita dalle manifestazioni democratiche della fine degli anni ottanta. L’Algeria è un paese reso prudente dalla sua sanguinosa storia. Bouteflika, ex figlio della rivoluzione, ha il vantaggio di essere stato a lungo lontano dal paese, emarginato e di fatto esiliato da un potere che diffidava di un giovane troppo brillante e al corrente di tutto.

Dopo vent’anni di potere la situazione è cambiata ma nell’inconscio nazionale e nonostante la sua età e le sue condizioni fisiche, Bouteflika continua a rimanere l’outsider che ha saputo mettere fine alla guerra civile e soprattutto denunciare con un’incredibile libertà tutti i mali del paese, compresa la corruzione, quando l’esercito si è deciso a fare ricorso a lui in mancanza di altri nomi.

Un dramma immutato
Così, mummia o meno, questo presidente rimane l’unico elemento in comune tra l’esercito e il popolo, tra i clan di uno stato maggiore che detiene il vero potere e un paese disperato per la sua stagnazione ma che teme di dividersi di nuovo o di assistere al ritorno in forza degli islamisti per quanto divisi, invecchiati e più o meno pacifici.

Ma al di là del riso e del pianto, della rabbia e dell’indignazione, l’Algeria si limita a sopravvivere a se stessa perché non sa ancora come uscire dal dramma fondamentale che risale a più di mezzo secolo fa, quando il potere coloniale francese fu sconfitto e sostituito da un esercito nazionale che non era affatto pronto a governare.

Originari delle campagne, il più delle volte senza alcuna formazione politica e talvolta senza neanche una grande cultura, i suoi dirigenti si sono limitati ad appropriarsi della libertà e a spartirsi le ricchezze di petrolio e di gas al riparo di un regime democratico di facciata che ormai da trent’anni non inganna più nessuno.

L’Algeria non vuole una rivoluzione ma non vuole più la sua dittatura-ombra. La via da intraprendere non è facile ma – necessità fa virtù – dovrà trovarla perché questo paese è indispensabile per la stabilizzazione del Mediterraneo e per l’affermazione dello sviluppo congiunto euro-africano. Uno sviluppo senza il quale i jihadisti continueranno a prosperare, i giovani africani a cercare la loro salvezza nell’emigrazione e l’estrema destra europea a svilupparsi.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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