02 novembre 2020 14:33

In pratica, mentre gli Stati Uniti sembrano divisi su ogni questione, la maggioranza degli americani concorda sul fatto che il loro “grande paese” è minacciato dal “fascismo” e che nelle prossime elezioni è in gioco la democrazia. Se l’onnipresenza del fascismo nel dibattito politico è abbastanza nuova, l’idea che le prossime elezioni possano determinare il destino della democrazia statunitense non lo è.

Dall’“elezione rubata” del 2000 in poi, ogni presidente è stato considerato illegittimo da una crescente percentuale dei sostenitori del partito avversario, da George W. Bush a Donald Trump passando per Barack Obama. Le elezioni del 3 novembre non faranno eccezione, anche se Joe Biden, il candidato del Partito democratico, dovesse vincere con una maggioranza importante (esito previsto dalla maggior parte dei sondaggi).

Affermare che le imminenti elezioni per la presidenza degli Stati Uniti siano “le elezioni più importanti di tutti i tempi” è sì un’esagerazione, ma solo in parte. A posteriori, anche il voto del novembre del 1932 nella Germania di Weimar fu molto importante. Il 3 novembre prossimo c’è molto in ballo, e non solo per gli Stati Uniti. Perché? L’elettorato di questa superpotenza, per quanto in declino, non decide solo la politica interna degli Stati Uniti, ma influenza in modo significativo anche la politica internazionale, compresa quella europea. Di conseguenza, è importante che gli europei comprendano bene qual è la posta in gioco, in termini di politica interna statunitense e di politica estera. Prima di ogni altra cosa, però, cerchiamo di dare un senso ai numeri a disposizione.

Le elezioni
È sempre azzardato scrivere un articolo settimane prima della sua pubblicazione, ma quando si scrive di sondaggi e del volubile clima politico negli Stati Uniti lo è ancora di più. Eppure, ci sono pochi dubbi: a livello nazionale Biden prenderà più voti di Trump. Anzi, è quasi certo che il suo margine sarà molto più ampio di quello di Hillary Clinton nel 2016. Spesso ci si dimentica che Clinton aveva preso quasi tre milioni di voti in più rispetto a Trump. Tuttavia, a causa del sistema elettorale poco democratico – quello dei grandi elettori, che dà un peso sproporzionato agli stati rurali e poco popolosi – aveva perso le elezioni.

Alcuni sondaggisti sostengono che, per conquistare la maggioranza dei grandi elettori, Biden dovrà prendere cinque milioni di voti in più del suo avversario. Secondo quasi tutti i sondaggi è un’eventualità tutt’altro che remota: molte rilevazioni danno Biden in testa rispetto a Trump di circa dieci punti. Tra questi sondaggi c’è il Rasmussen poll, che tende a essere più compiacente nei confronti dei repubblicani e di conseguenza è spesso pubblicizzato da Fow News e dal presidente..

Il covid-19 ha complicato la campagna elettorale di entrambi, ma non è certo che possa influire sui risultati in maniera significativa

Insomma, i modelli di previsione danno Biden vincente sicuro. Per esempio, il sito di previsioni FiveThirtyEight assegna all’ex vicepresidente l’89 per cento di possibilità di insediarsi come presidente nel gennaio 2021. Ma bisogna ricordare che nel 2016 alcuni modelli davano a Hillary Clinton la stessa probabilità di vittoria: sappiamo tutti com’è andata a finire.

Ma esistono alcuni motivi per cui questa volta i pronostici potrebbero rivelarsi esatti. Prima di tutto, i “fondamenti” dei modelli predittivi – che includono la situazione economica e il partito del presidente in carica – danno favoriti i democratici, mentre nel 2016 davano favoriti i repubblicani. Forse, però, ancora più importante è che Biden sia in testa con un distacco netto rispetto a Trump in molti stati decisivi, inclusi quelli fondamentali e persi a sorpresa nel 2016 (come Michigan e Wisconsin). Inoltre, molti stati che fino a poco tempo fa erano considerati indiscutibilmente repubblicani (come Georgia, Iowa, North Carolina) oggi potrebbero schierarsi con i democratici.

Il covid-19 ha reso più complicata e difficile la campagna elettorale di entrambi i candidati, ma non è certo che possa influire sui risultati elettorali in maniera significativa. Quasi tutti gli statunitensi (ben il 94 per cento) si sono già fatti un’idea precisa e sanno chi (non) voteranno. Le opinioni su Trump sono stabili, soprattutto se si tiene conto dell’instabilità della sua presidenza. La pandemia non ha portato a defezioni di massa, nonostante i circa 231mila morti (bilancio tuttora in aumento) e la disoccupazione che ha raggiunto un numero a due cifre.

In ogni caso, ci sono stati piccoli cambiamenti significativi che potrebbero essere decisivi per l’esito delle elezioni, in particolare il fatto che molte donne bianche con un alto livello di istruzione sono passate dalla parte di Biden e che l’affluenza tra le donne che appartengono alle minoranze potrebbe essere più alta del solito. È importante notare che le elettrici di questo secondo gruppo sono state tra le persone più colpite dalla pandemia.

Corsa a ostacoli per votare
L’esito del voto dipenderà, più di ogni altra cosa, dall’affluenza. E non solo da chi si recherà alle urne ma anche da chi potrà andarci. Fin dalla fondazione del paese, i risultati elettorali sono stati segnati dalla soppressione del voto delle minoranze, all’inizio palese e lecita, oggi più nascosta e a volte illegale.

Come negli Stati Uniti impediscono ai neri di votare. Il video del New York Times


Oggi i repubblicani stanno facendo tutto il possibile per limitare l’affluenza, soprattutto nei quartieri non bianchi che favoriscono i democratici. In Texas, per esempio, il governatore ha approvato un provvedimento che prevede un solo punto di raccolta per contea per chi vuole votare per posta. Senza parlare delle lunghe code ai seggi elettorali: il primo giorno del voto anticipato in Georgia, un mio amico è rimasto in coda quattro ore nella cittadina (di sinistra) dove ho frequentato il college, mentre altri mi hanno parlato di attese in fila fino a dodici ore.

Anche se tutto fa pensare che Biden possa vincere, sono rimasto troppo scottato da quello che è successo nel 2016 e vedo troppe prove della soppressione del voto per escludere categoricamente una vittoria di Trump. Certo, dal 2016 a oggi alcuni gli hanno voltato le spalle, ma forse non sono così tanti. Al contrario, chi è rimasto al fianco del presidente credono davvero in lui e andrà a votare con convinzione. Di conseguenza, cerco di prepararmi sia al protrarsi della situazione attuale – con Trump alla Casa Bianca, i repubblicani in maggioranza al senato e i democratici che controllano la camera – sia a un repulisti generale, con i democratici vittoriosi alla Casa Bianca e al senato (i due scenari più probabili, secondo me), o a qualsiasi esito intermedio.

Tre scenari possibili

A prescindere dal risultato, le elezioni saranno contestate da chi uscirà sconfitto: sui mezzi d’informazione, nelle strade e, senza dubbio, in tribunale. Entrambi gli schieramenti diranno che la controparte non vuole accettare la sconfitta, mentre dai sondaggi risulta che sempre più statunitensi credono che la violenza sia giustificabile in caso di vittoria del candidato avversario.

Di conseguenza, non sorprende che i mezzi d’informazione siano pieni di supposizioni sulla “violenza post-elettorale”, e si parli perfino di una “seconda guerra civile”. Molti progressisti sono convinti che Trump non si limiterà solo a non accettare il risultato elettorale, ma rifiuterà anche di lasciare il suo incarico, dando vita così a un vero e proprio “autogolpe” (un colpo di stato a proprio favore). Se dunque tutto è possibile – e questo dovrebbe già bastare a capire quello che c’è bisogno di capire sulle condizioni attuali della democrazia negli Stati Uniti – permettetemi di illustrarvi i tre scenari elettorali più probabili e il loro impatto sugli Stati Uniti.

Il primo scenario
Il primo è quello in cui Trump perde le elezioni, ma rifiuta di ammettere la sconfitta e di lasciare la Casa Bianca. Anche se è lo scenario meno probabile, è pur sempre possibile, se non altro perché lo stesso Trump ne ha parlato più volte. Sulla base del suo comportamento negli ultimi quattro anni, possiamo aspettarci che il Partito repubblicano si schiererà dalla sua parte o, quanto meno, non lo ostacolerà in modo attivo o esplicito. Molto dipenderà dalla reazione dell’opinione pubblica, sui mezzi di informazione e nelle piazze, e da quanto si farà per incentivare l’applicazione della legge e per far schierare l’esercito al fianco del presidente eletto rispetto a quello ancora in carica. Tuttavia, tenuto conto del lungo servizio pubblico di Biden, compresi gli otto anni alla vicepresidenza, i suoi rapporti con la sicurezza nazionale sono quanto meno buoni, se non addirittura migliori, di quelli di Trump. Per esempio, un recente sondaggio del Military Times ha rivelato che, mentre nel 2016 Trump godeva del sostegno della maggioranza dei militari, nel 2020 Biden conta su un sostegno maggiore, senza dubbio riconducibile in parte anche al sessismo contro Hillary Clinton.

Sostenitori di Donald Trump durante un suo comizio a Rome, in Georgia, 1 novembre 2020. (Brandon Bell, Reuters/Contrasto)

Anche nel caso in cui Biden arrivasse a occupare la Casa Bianca, tuttavia, la sua presidenza sarà una sorta di Obama 3.0, perlopiù sfibrata da un senato ribelle dominato dal Partito repubblicano e contrastata da una maggioranza di stati controllati dai repubblicani. Come Obama, Biden cercherà di rabbonire i repubblicani “moderati”, concedendo molto ma ricevendo in cambio poco. Al tempo stesso, la camera controllata dai democratici diventerà sempre più insoddisfatta e intollerante, rafforzando così la ribellione in corso nell’ala sinistra del partito, soprattutto negli stati molto progressisti come California e New York.

D’altro canto, il presidente Biden porrà fine agli attacchi alla democrazia liberale statunitense, sia quelli fisici sia quelli verbali, che hanno caratterizzato la presidenza di Trump, e ripristinerà i finanziamenti, il sostegno e la fiducia nelle più importanti agenzie federali come l’Agenzia per la difesa dell’ambiente (Epa) e l’Fbi. La sua vicepresidente, l’ex procuratrice Kamala Harris, si concentrerà sulla riforma della giustizia, che potrebbe avere conseguenze politiche a lungo termine.

Il secondo scenario
Il secondo scenario è quello in cui Trump perde di nuovo il voto popolare, ma vince le elezioni grazie al sistema elettorale. Anche se con riluttanza, e forse dopo alcuni ricorsi in tribunale, Biden e il Partito democratico ammetteranno la sconfitta. A quel punto saranno duramente criticati dall’ala sinistra del partito, che li accuserà di essere stati troppo vicini a Wall street e dirà anche che Bernie Sanders avrebbe vinto. Se da un lato è verosimile che le proteste dilagheranno nelle città più importanti, e senza dubbio ci saranno azioni vandaliche ed episodi violenti, dall’altro è improbabile che possa esserci una resistenza armata. Trump vedrà nella sua rielezione una forma di rivincita della sua campagna autoritaria e razzista e userà le proteste per lanciare un’offensiva al dissenso e alle proteste politiche, con il sostegno dalla maggior parte dei repubblicani che, con ritrosia o con entusiasmo, accetteranno l’egemonia di Trump per gli anni a venire. In sostanza, Trump continuerà a governare perlopiù come prima, forse con meno freni e ancora meno opposizione.

Ciò che più conta è che un secondo mandato di Trump potrebbe riconfigurare in maniera determinante sia il Partito repubblicano sia la democrazia e lo stato americano. Avendo vinto le elezioni solo grazie a se stesso, Trump non sentirà nessun bisogno di trovare un compromesso con l’establishment repubblicano. Al tempo stesso, sempre più repubblicani che lo sostengono occuperanno posti al congresso e nei parlamenti statali, anteponendo la lealtà personale a Trump alla lealtà al partito, per non parlare della lealtà alla democrazia statunitense.

Infine, i giovani sostenitori di Trump, appartenenti a organizzazioni come Students for Trump e Turning point Usa, entreranno sia nelle file del Partito repubblicano sia nell’apparato burocratico statale, sostituendo burocrati democratici di lunga esperienza che hanno resistito al loro posto per quattro anni ma che, di sicuro, non saranno più disposti a lavorare per un presidente che diffida del loro lavoro o li sottovaluta. Se anche non riuscisse a demolire la struttura istituzionale della democrazia americana, Trump potrebbe svuotarla di contenuto e potere privandola di fondi, con deregolamentazioni e sostituzioni di dipendenti in posizioni chiave (dai burocrati di più basso livello fino ai giudici della corte suprema). In particolare, è con questi mezzi che la sua devastante eredità potrebbe sopravvivere per decenni alla sua attuale amministrazione.

Il terzo scenario
Nel terzo scenario Biden conquista la presidenza con una maggioranza schiacciante, e questo implicherebbe quasi sicuramente una vittoria dei democratici nelle elezioni per il congresso e per i parlamenti statali. Come nel 2008, la sinistra controllerebbe la presidenza, il senato e la camera. Tuttavia, questa volta il presidente in carica non sarebbe un esordiente ma un politico esperto che non sprecherebbe i primi due anni a cercare di comprendere il sistema e a capire come convincere i repubblicani a collaborare.

Biden è pronto a ricoprire il suo incarico e nei primi mesi della presidenza apporterebbe una serie di cambiamenti significativi. In buona parte, si occuperà di porre rimedio ad alcuni dei danni provocati da Trump, per esempio ponendo fine al suo “divieto contro i musulmani” e varando politiche a breve termine finalizzate a mettere sotto controllo la pandemia da covid-19 e dare impulso alla ripresa economica. Biden potrebbe anche pensare di portare avanti proposte che avrebbero conseguenze importanti a lungo termine: per esempio quella di riconoscere come stati Puerto Rico e il Distretto di Columbia (per cui serve l’approvazione del congresso), in modo da assicurare ai democratici quattro seggi in più al senato per i decenni a venire. Gli ostacoli più importanti per Biden saranno la corte suprema, che dopo la nomina di Amy Coney Barrett è formata per due terzi da conservatori, e i molti stati governati dai repubblicani.

Una vittoria schiacciante dei democratici getterebbe nello scompiglio il Partito repubblicano. Tenuto conto che Trump non ha ancora dato vita a un’infrastruttura trumpiana, né dentro il partito né fuori, la sua influenza politica diminuirà rapidamente. Molti repubblicani che si sono schierati con il presidente erano opportunisti più che sostenitori convinti, e non ci penseranno molto prima di abbandonare Trump e le sue politiche. A quel punto scoppierà una deleteria guerra interna tra i “conservatori nazionali” come Josh Hawley (repubblicano del Missouri), che vorrebbe spostare il partito più a destra, e gli “unificatori” come Ben Sasse (repubblicano del New England), che vuole un Partito repubblicano più inclusivo. Mentre questa seconda fazione ha sicuramente un futuro – in particolare se riuscirà a fare presa sugli elettori conservatori ispanici e di origine asiatica – la prima potrebbe avere un sostegno popolare maggiore, soprattutto nel midwest e negli stati della regione sudoccidentale.

Biden erediterà un’estrema destra aggressiva e abituata a mobilitarsi, comprese le “milizie” come gli Oath keepers e i Three percenters, che dopo aver sostenuto Trump torneranno su posizioni antigovernative. Oltre a loro, il Ku klux klan di vecchio stampo, i gruppi neonazisti e quelli della cosiddetta destra alternativa continueranno a istigare alla violenza, soprattutto in città come Portland, in Oregon.

Le attività di questi gruppi sono preoccupanti, ma non metteranno a rischio la democrazia degli Stati Uniti. È vero che godono di un sostegno significativo tra gli agenti delle forze dell’ordine, e che sia il dipartimento per la sicurezza nazionale sia l’Fbi hanno ammesso che i “suprematisti bianchi” costituiscono una delle più gravi sfide terroristiche al livello interno. Ma quando i direttori di queste agenzie torneranno ad avere il sostegno politico del presidente, agiranno con molta più rapidità e durezza per soffocare la potenziale violenza dell’estrema destra. E, come abbiamo già visto dopo l’attentato di Oklahoma City del 1995, questo porterà a un rapido declino del movimento, anche se continueranno a verificarsi episodi accidentali di violenza.

Le conseguenze per l’Europa?
Le elezioni negli Stati Uniti hanno conseguenze significative anche per il resto del mondo, Europa compresa. Malgrado superficiali articoli sulla “sempre più ampia base trumpiana in Europa”, Trump è estremamente impopolare in Europa, sia tra i politici sia tra gli elettori. Uno dei rari sostenitori espliciti di Trump è il primo ministro ungherese Viktor Orbán, che lo ha già appoggiato nel 2016. Più che di una vera connessione ideologica però, in questo caso si può parlare di interesse personale. Se Trump difende i leader autoritari dalle critiche e dalle sanzioni, Biden ha detto con chiarezza che ripristinerà la politica statunitense della difesa attiva e della promozione della democrazia e dei diritti umani in tutto il mondo: per quanto la politica degli Stati Uniti sia sempre stata imperfetta e opportunistica, gli ultimi quattro anni hanno fatto capire chiaramente che ancora adesso è preferibile rispetto al tacito sostegno di Trump ai regimi autoritari.

Una vittoria di Biden sferrerà anche un duro colpo ai partiti di estrema destra che non sono al potere al momento, dal Front national di Marine Le Pen alla Lega di Matteo Salvini. Se da un lato Trump non ha mai allacciato rapporti veri e propri con questi partiti, è anche vero che li ha normalizzati e sostenuti più o meno apertamente. Per di più, Trump ha nominato molti ambasciatori degli Stati Uniti vicini ai partiti di estrema destra nei paesi dove hanno prestato servizio, dall’ex ambasciatore in Germania Richard Grenell all’attuale ambasciatore nei Paesi Bassi, Pete Hoekstra. Naturalmente gli europei non avevano bisogno che Trump appoggiasse le politiche dell’estrema destra, dato che lo stavano già facendo loro assai bene prima che lui entrasse nella scena politica. La sua sconfitta, in ogni caso, probabilmente cambierà il clima politico, in quanto i mezzi d’informazione internazionali di sicuro scateneranno uno tsunami di articoli sulla “fine del populismo”.

Sugli aspetti più essenziali, le relazioni tra Unione europea e Stati Uniti non cambieranno in modo così drastico come alcuni sembrano pensare. Certo, Biden non si schiererà apertamente contro l’Ue o contro la Nato (d’altronde Trump finora lo ha fatto più a parole che con i fatti), ma non farà molto di più che tornare a garantire il sostegno di Washington. In un articolo abbastanza insipido pubblicato su Foreign Affairs, Biden ha illustrato la politica estera della sua presidenza, e l’Europa è citata solo due volte. La prima volta parla dell’Unione europea come di uno dei “più stretti alleati” degli Stati Uniti insieme al Canada. Nel secondo caso, la citazione è di passaggio ma ancora più rivelatrice, e vi si legge che gli Stati Uniti dovrebbero spingersi “al di là del Nordamerica e dell’Europa” e tornare a investire in Australasia. Da questo punto di vista, come per molte altre cose, la presidenza di Biden sarebbe una prosecuzione della presidenza di Obama, durante la quale gli Stati Uniti hanno già distolto la loro attenzione dall’Europa per rivolgerla verso l’oriente.

Questo spostamento dell’attenzione statunitense non solo ridurrà l’importanza dell’Europa agli occhi degli Stati Uniti, ma potrebbe anche esporre l’Ue a maggiori pressioni politiche cinesi da una parte e statunitensi dall’altra. Se la Cina è stata a lungo solo la “minaccia rossa” dei repubblicani, Biden ha fatto di più che sposare la posizione anticinese di Trump. In verità, mentre Trump potrebbe sembrare più accanito e razzista, Biden ha una posizione politica nei riguardi della Cina di gran lunga più ostile, radicata nel diffuso principio secondo cui quel paese rappresenta la minaccia economica e alla sicurezza più grave per gli Stati Uniti. Tenuto conto che gli Stati Uniti sperano di contenere l’influenza della Cina nel Pacifico, eserciteranno sempre più pressioni sull’Ue e sui suoi stati membri e sacrificheranno le opportunità politiche per soddisfare gli obiettivi strategici degli Stati Uniti, come sta avvenendo già ora per ciò che riguarda la collaborazione con l’azienda tecnologica cinese Huawei.

Conclusioni
Il 3 novembre un numero probabilmente senza precedenti di statunitensi potrebbe votare per eleggere un nuovo presidente. Se Trump dovesse subire una sconfitta schiacciante non sarebbe tanto a causa del suo autoritarismo e delle sue politiche xenofobe ma perché la sua gestione della pandemia ha messo in pericolo le vite degli anziani statunitensi (bianchi), la sua base elettorale più solida e che per tradizione ha sempre aiutato i presidenti repubblicani a essere eletti.

In anticipo rispetto alle tante elezioni che si svolgeranno in Europa nel 2021, tra cui quelle nei Paesi Bassi e in Germania, una vittoria di Biden potrebbe spostare gli umori della politica globale, e i mezzi d’informazione annunceranno (prematuramente) la “fine del populismo”. I partiti moderati potrebbero emarginare ancor di più l’estrema destra dando la priorità alle questioni socioeconomiche come la ripresa dell’economia e togliendo importanza alle questioni socioculturali come l’immigrazione. In ogni caso, anche se l’Europa moderata tornerà ad avere un presidente cordiale alla Casa Bianca, lo sguardo di quest’ultimo sarà rivolto verso il Pacifico, più che verso l’Atlantico.

Qualsiasi sia il risultato delle elezioni del 3 novembre, quindi, l’Europa deve trarre una lezione importante: il continente deve cominciare a camminare sulle sue gambe una volta per tutte, senza fare affidamento sugli Stati Uniti dal punto di vista politico e militare. Gli ultimi due presidenti repubblicani – George W. Bush e Trump – hanno ignorato gli interessi europei, soprattutto quando entravano in conflitto con quelli degli Stati Uniti. Ma bisogna considerare che anche i presidenti democratici non hanno spostato l’attenzione su altre zone del mondo. Mentre gli Stati Uniti diventano un paese formato in maggioranza da minoranze, la percentuale di statunitensi con rapporti familiari e personali con altri paesi e regioni del pianeta aumenta sempre più.

È giunta l’ora, per i politici europei, di fare i conti con questo sviluppo strutturale e pensare a una politica estera più indipendente e diversificata.

(Traduzione di Anna Bissanti)

Questo articolo è uscito su VoxEurop.

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