17 agosto 2016 18:24

Mangiamo come non mai, ma non lo sappiamo, o comunque riusciamo a dimenticarcene. Mai come adesso il cibo ha avuto tanto spazio nella nostra vita, tanti significati, tanto peso, e non abbiamo mai mangiato tanto.

Per migliaia di anni i nostri antenati hanno avuto con il cibo un rapporto essenzialmente pratico: bisognava nutrirsi, e il problema principale era riuscirci. Nei piatti della maggior parte degli europei c’erano soprattutto farinacei – pane, pasta, ceci – e un pezzetto di carne ogni tanto, durante le feste e in altre occasioni speciali. A volte ci aggiungevano qualche prodotto dell’orto, ma mangiare era, più che altro, ripetizione e fatica. Quando nel 1789 i parigini scesero in piazza per chiedere il pane non stavano usando una metafora, reclamavano il loro alimento principale.

Compensazione e vanità

Oggi mangiamo come un tempo mangiavano in pochi. E, nella maggior parte dei casi, neanche mangiamo tutto: nell’Europa – o ex Europa – ricca, più di un terzo del cibo finisce nella spazzatura. In Spagna, senza andare troppo lontano, ogni anno si gettano 7,7 miliardi di chili di cibo: più di 20 milioni di chili al giorno. Se partiamo dal presupposto che una persona può vivere con mezzo chilo di cibo al giorno, questo significa che, con quello che buttiamo qui potrebbero vivere altri 40 milioni di persone.

Lo buttiamo. Ma, nella maggior parte dei casi, ovviamente, lo mangiamo. E abbiamo fatto del mangiare uno dei momenti centrali della nostra vita.

Mangiare per fame significa dare a quell’animale invisibile che c’è in ognuno di noi quello che gli serve per continuare a funzionare: pagargli il suo tributo. Mangiare per mangiare, invece, significa mangiare per sé. Non per le esigenze di quell’animale sconosciuto ma per piacere, per riunirci, per condividere qualcosa, per trovare un’identità. Il nostro rapporto con il cibo è fatto di piacere e aspirazioni, di compensazione e vanità.

Nelle nostre società opulente, milioni di persone non mangiano per nutrirsi ma per definirsi

Il modello estremo della gastronomia contemporanea sarebbe il banchetto degli antichi romani. Per mangiare di più, quei padroni del mondo vomitavano quello che avevano già mangiato, perché la pancia piena non gli impedisse di continuare a ingozzarsi, la nutrizione non interferisse con il piacere.

Nelle nostre società opulente, milioni di persone non mangiano per nutrirsi ma per definirsi, in tanti modi diversi: come conoscitori, impegnati, moderni, nostalgici, snob, ricchi, sibariti da quattro soldi, e via dicendo. Mangiano come vivrebbero se potessero, mangiano per dimostrare come vivrebbero se potessero. Per questo cercano di educarsi, di verificare tutte le possibilità: leggono, guardano e ascoltano come chi sfoglia il catalogo di un’agenzia di viaggi, immaginando che magari un giorno lo cucineranno. Oppure lo cucinano sul serio.

Fingere di capire

La cucina – cucinare, preparare un piatto – è l’imitazione di un mondo ideale, e puramente razionale, in cui certe cause producono inevitabilmente certi effetti. Un embrione di oviparo depositato con cura in un utensile piatto ben unto di grasso animale o vegetale ed esposto a un calore medio ha buone probabilità, a meno di un imprevisto, di trasformarsi in uovo fritto. E così via, in ordine crescente di – falsa – complessità: si tratta solo di passaggi. La cucina è un cosmo ordinato nel quale ognuno crede di poter fare quello che vuole seguendo le istruzioni: un mondo di ricette. Cucinare significa normalizzare, mettere ordine nel caos naturale.

Altrimenti, andiamo a mangiare fuori, oppure guardiamo chi mangia. Il ristorante, un’altra invenzione della rivoluzione francese della fine del settecento, ha permesso alla gastronomia dei nobili di scendere al livello del popolo, per poi risalire all’Olimpo dei grandi ristoranti, i templi dei più ricchi. Agli altri restano le illusioni, o i racconti. I programmi di cucina, inventati dalla televisione alla fine del ventesimo secolo – con i libri, le riviste e altro materiale d’uso – hanno permesso al cibo di smettere definitivamente di essere qualcosa che si mangia.

Il cibo è diventato così palesemente un simbolo, che non abbiamo più bisogno di mangiarlo: ci basta guardarlo, commentarlo, fingere di capirlo. Come diceva il famoso comico italiano Paolo Poli: “Credevo che questo fosse il secolo del sesso e invece si è rivelato il secolo del cibo”.

Anjelika Gretskaia, Getty Images

È sorprendente che questo esercizio quotidiano e ripetitivo, con il quale forniamo energia e piacere al nostro corpo, sia diventato soprattutto qualcosa che non si mangia: si legge, si guarda, si ascolta, si immagina. Il cibo, la cosa più materiale e più intima che ci sia, è entrato nell’universo dello spettacolo o della masturbazione. Un sintomo di questo è che passiamo ore a guardare da lontano quello che prima toccavamo, annusavamo, inghiottivamo. Forse questo è il cambiamento necessario per trasformare la gastronomia nell’arte del momento. Non è difficile, non è caro, non richiede istruzione, ci crediamo capaci di capirlo, ci conferisce status sociale.

(Anche Juan Caparrós, in un suo recente articolo, esclude la possibilità di vedere la gastronomia come un’arte. In fondo l’alta cucina non si basa sulla creazione ma sulla ripetizione: uno chef inventa un piatto, e da allora in poi, i suoi assistenti dovranno copiarlo con la maggior precisione possibile. È piuttosto una forma di artigianato: un modello che, una volta inventato, non lascia nessuno spazio all’invenzione).

Mangiare bene è soprattutto alla portata dei più ricchi. Da questo nasce la grande piaga dei nostri tempi e delle nostre terre: l’obesità

Mangiare è necessario e ripetitivo. Uno spagnolo di 50 anni ha fatto in media, se non ne ha saltati troppi, circa 35mila pasti. Ci sono poche cose che facciamo così spesso come mangiare, quindi vale la pena di sfruttarla, di renderla redditizia.

Ma oggi il cibo, come tutto il resto, è anche pericoloso. Mettersi in corpo tanta materia ignota, di origini lontane e sconosciute, industriali e sospette, per i paranoici dell’ambiente è molto rischioso. Sono sempre più frequenti le lamentele su come ci ingannano e ci avvelenano con alimenti adulterati e i consigli per evitarli, e si sta diffondendo l’idea che sarebbe meglio tornare ai metodi tradizionali, quelli che producono i pomodori migliori ma ne producono così pochi che solo chi può permettersi di pagarli tre o quattro volte tanto potrà mangiarli. Biologici, ecologici, naturali.

Lo spreco non conviene a nessuno

Nei nostri paesi ricchi, mangiare è alla portata di – quasi – tutti, ma mangiare bene è soprattutto alla portata dei più ricchi. Da questo nasce la grande piaga dei nostri tempi e delle nostre terre: l’obesità. Si calcola che nel mondo ci siano tanti obesi quanti affamati. E quindi cediamo alla tentazione del paradosso facile: se ci sono tanti affamati è perché quelli che mangiano troppo gli tolgono il cibo. Niente di più falso: gli obesi sono i malnutriti dei paesi ricchi, come gli affamati lo sono dei paesi poveri.

Mangiamo come non mai, ma ci sono sempre più persone che vorrebbero mangiare come noi, più cinesi, più indiani, più sudamericani. E questo mondo non può più sopportarlo: lo spreco non conviene a nessuno. È probabile che si stia cominciando a trovare una soluzione, non nei campi o nelle stalle, ma nei laboratori: nuovi modi di produrre alimenti che cambieranno l’idea di come si producono gli alimenti, che prescinderanno dalle piante e dagli animali, e probabilmente daranno il via a una rivoluzione decisiva come l’invenzione dell’agricoltura. Ancora una volta, mangeremo come non mai.

Già è possibile, per esempio, produrre vera carne clonando cellule di carne: per ora il problema è che costa troppo, però sicuramente entro pochi anni questa carne farà concorrenza ai maiali e alle mucche. E, se ci si riuscirà, tanta terra che adesso è usata per far pascolare il bestiame sarà libera per produrre altre cose, tante piante che mangiamo potranno essere mangiate da qualcun altro, l’anidride carbonica non riscalderà più il pianeta, e così via: il famoso effetto domino, l’imprevedibile.

Forse sarà un altro grande momento della storia. Sta già succedendo anche se, per ora, tutto è nelle mani di grandi e piccole imprese, soprattutto nordamericane, dei loro tecnici, dei loro laboratori, che pensano a fare cibo per fare soldi. Sta già succedendo e per questo vale già la pena di cominciare a discutere su chi gestirà questo cambiamento e chi ci guadagnerà: perché mangiare come non mai non sia, ancora una volta, rubare a qualcun altro.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano spagnolo El País.

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