30 novembre 2016 13:42

Voglio raccontarvi la storia di un genio machiavellico della manipolazione psicologica (l’ho presa in prestito dall’educatore statunitense Alfie Kohn, ma può essere adatta anche ad altri paesi). C’è un uomo anziano che vive vicino a una scuola. Tutti i pomeriggi un gruppo di studenti sulla via di casa si ferma a stuzzicarlo. Un giorno si avvicina ai ragazzi e propone un patto: darà una sterlina a ognuno di loro se il giorno dopo tornerà a prenderlo in giro. Increduli, ma eccitati all’idea, gli studenti accettano. Tornano a provocarlo e lui dà a ciascuno quello che gli aveva promesso, ma dice che il giorno successivo potrà permettersi di pagare solo 25 pence a persona. Ancora eccitati all’idea di essere pagati, il pomeriggio dopo i ragazzi tornano, ma il vecchio spiega loro che purtroppo, da allora in poi il compenso sarà solo di un penny. “Un penny?”, dicono sdegnati. Per così poco non vale la pena di fare tutta quella fatica. Se ne vanno borbottando e non lo disturbano più.

La morale di questa storia – e cioè che le ricompense a volte possono ottenere l’effetto contrario – non è una novità. Gli psicologi studiano questo problema da anni e lo chiamano “effetto di sovragiustificazione”. Fino a poco fa, si è dato per scontato che le persone funzionassero fondamentalmente come i topi di laboratorio di Skinner: bastava offrirgli un incentivo per addestrarli a fare qualsiasi cosa. Ma negli esseri umani, e in certe condizioni, la ricompensa rinforza semplicemente la convinzione che il compito non abbia alcun valore in sé.

Proietta tutto il piacere nel futuro, nel momento in cui si riceverà il premio, trasformando il presente in qualcosa di faticoso e noioso. Da questo punto di vista, i premi non sono l’opposto delle punizioni, ma praticamente la stessa cosa: un modo per spingere le persone a svolgere attività che non svolgerebbero spontaneamente.
Questo effetto è particolarmente discusso nell’ambito dell’insegnamento e del rapporto tra genitori e figli (attenti a premiare i vostri figli per i lavoretti che fanno o perché vanno bene a scuola); e a volte anche in quello delle abitudini personali (pensateci due volte prima di premiarvi perché siete andati in palestra o avete scritto un’altra pagina del vostro romanzo).

Più che una questione di soldi
Ma le sue applicazioni sono molto più ampie. Ne è la prova un recente studio pubblicato sulla rivista Psychological Science, secondo il quale le persone che raccolgono fondi a fini benefici riescono a ottenere meno soldi, e risultano meno sincere, se sono pagate, anche se all’inizio erano sinceramente dedite alla causa. A pensarci bene, dato che la maggior parte di noi è costretta a lavorare per denaro, forse l’effetto dell’eccesso di gratificazione è insito nell’economia. E perciò il fatto stesso di essere pagati per quello che facciamo significa che non riusciremo mai a trovarlo soddisfacente in sé?

E non è solo una questione di soldi. Nel suo ultimo libro, The course of love, Alain de Botton inveisce contro la visione romantica dei rapporti di coppia che ci fa sognare l’anima gemella “perfetta” e pensare che i nostri rapporti reali siano sempre imperfetti, difficili e poco divertenti. L’effetto da sovragiustificazione aggiunge ancora un altro elemento a questo problema: se stiamo sempre ad aspettare il momento in cui tutto ci sembrerà perfetto, non sarà ancora più arduo sopportare la routine quotidiana? Forse l’unica vita davvero appagante è quella vissuta senza alcuna speranza di ricompense.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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