17 settembre 2019 09:15

Quando a giugno è proseguita l’escalation nel golfo Persico, con l’attacco contro due petroliere, era tornata attuale la considerazione del capo della diplomazia britannica che a maggio aveva evocato il rischio di una guerra “per distrazione”. Il senso era che per quanto nessun protagonista coinvolto cercasse lo scontro, questo non era solo possibile, ma rischiava di diventare inevitabile.

Dal 14 settembre ci siamo pericolosamente avvicinati a questo scenario con l’attacco contro le strutture petrolifere saudite dell’Aramco nell’est del paese e le ripercussioni in tutto il mondo.

La guerra, però, non è ancora inevitabile, anche se è evidente la tentazione di rappresaglie contro l’Iran, indicato sempre più insistentemente come aggressore dall’Arabia Saudita e, con più prudenza, anche dagli Stati Uniti.

La guerra non è ancora inevitabile perché tutti sono perfettamente consapevoli del fatto che una rappresaglia contro l’Iran potrebbe incendiare la regione. Il rischio è doppio: da una parte quello di scatenare un conflitto militare devastante e prolungato, dall’altra quello di destabilizzare l’economia mondiale con un’ascesa incontrollata del prezzo del petrolio.

A questo punto è giusto cercare di capire le motivazioni dei protagonisti. Cominciamo dall’Iran, che sembra aver scelto la linea dura anche se Teheran ha negato di aver organizzato l’attacco contro la raffineria saudita. Vicino al soffocamento a causa delle sanzioni statunitensi, l’Iran ha innescato l’escalation riprendendo, per tappe, le sue attività nucleari e moltiplicando i gesti provocatori (compresa la distruzione di un drone dell’esercito statunitense).

L’incontro di Trump con il presidente iraniano ora è molto più difficile se non impossibile

Finora la strategia iraniana sembra quella di alzare la posta nella speranza di far muovere gli altri firmatari dell’accordo sul nucleare del 2015, a cominciare dagli europei. L’attacco del 14 settembre segna un’ulteriore tappa di questa escalation spiccatamente politica o è solo un rilancio dell’ala dura del regime dei mullah per impedire qualsiasi compromesso con Washington? Difficile dirlo, ma la risposta a questa domanda determinerà i prossimi sviluppi: inasprimento del conflitto o un’altra possibilità per la diplomazia.

La situazione è altrettanto complessa sul fronte statunitense. Il 10 settembre Donald Trump ha licenziato il suo consulente John Bolton, che notte e giorno sognava di scontrarsi con l’Iran. A quel punto l’ipotesi di un vertice tra il presidente degli Stati Uniti e il suo collega Hassan Rohani, da organizzare a New York nei prossimi giorni, sembrava verosimile, magari con l’aiuto della diplomazia francese. Ora invece è tutto molto più difficile, se non impossibile.

Donald Trump non vuole trascinare il paese in un’altra guerra in Medio Oriente proprio ora che deve pensare alla campagna per la rielezione, anche perché ha già promesso il contrario agli elettori.

La portata dell’attacco, che ha privato il regno saudita della metà delle sue esportazioni di petrolio, rende obbligatoria una reazione. Ma le opzioni sul tavolo di Trump sono tutte rischiose, e questo lascia ancora uno spiraglio, minimo, alla diplomazia. Donald Trump deve prendere la decisione più difficile del suo mandato.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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