17 aprile 2020 09:32

Questa settimana 90mila detenuti sono stati rilasciati dai sovraffollati penitenziari della Turchia a causa dell’epidemia di covid-19. Tra le persone liberate, però, non ci sono i giornalisti incarcerati né i prigionieri politici come lo scrittore Ahmet Altan o il filantropo Osman Kavala, due vittime della vendetta del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Lo scopo dell’amnistia, infatti, è quello di far spazio nelle prigioni per evitare che il virus si diffonda, non certo di mettere fine alla repressione.

Il virus ha costretto Erdoğan a un numero di equilibrismo particolarmente rischioso. Il presidente turco deve fronteggiare un’epidemia molto più seria di quanto previsto, con 75mila casi e 1.600 morti secondo l’ultimo bilancio, e al contempo continua a condurre due guerre al di fuori dei confini della Turchia, nel nord della Siria e in Libia.

Per non parlare della situazione di estrema fragilità all’interno del paese, politica (malgrado la natura autoritaria del governo), ma soprattutto economica, con il contraccolpo della crisi che si aggiunge a una situazione già precaria.

Coprifuoco e panico
Erdoğan ha esitato a lungo prima di adottare le misure di isolamento, nonostante fosse stato esortato dagli esperti del settore sanitario e dal sindaco (all’opposizione) della più grande città del paese, Istanbul, dove si registra il 60 per cento dei casi di contagio.

Questo perché il presidente temeva le conseguenze economiche del blocco in un contesto in cui le risorse finanziarie sono già abbastanza compromesse. Quando Erdoğan ha finalmente adottato i provvedimenti adeguati, gli effetti sono stati disastrosi. Il 10 aprile il governo ha annunciato un coprifuoco per il fine settimana, ma lo ha fatto due ore prima dell’effettiva entrata in vigore. L’annuncio inatteso ha scatenato il panico e le corse agli acquisti, provocando il risultato opposto a quello sperato.

Il turismo impiega 2,5 milioni di persone e ha subìto una forte battuta d’arresto

Di fronte alla rabbia dei cittadini, il ministro dell’interno Süleyman Soylu ha presentato le sue dimissioni, respinte però da Erdoğan. La vicenda ha evidenziato le fratture politiche all’interno del governo, con una lotta tra clan di cui Soylu, un ultranazionalista, è uno dei principali protagonisti.

Il virus ha sparigliato le carte. Solo cinque settimane fa (anche se sembra passata un’eternità) la Turchia aveva avviato un braccio di ferro con l’Europa inviando migliaia di migranti verso la Grecia, e nello stesso momento aveva cominciato a scontrarsi con l’esercito di Bashar al Assad nell’area di Idlib.

Con la sua consueta audacia, Erdoğan aveva pensato di sfruttare la minaccia dei migranti per costringere l’Europa a sostenerlo in Siria. Ma il virus ha cambiato tutto. Oggi il presidente turco deve fronteggiare una crisi sanitaria e sociale in un paese in cui il turismo impiega 2,5 milioni di persone e ha subìto una forte battuta d’arresto. Prima o poi Ankara avrà bisogno di un aiuto economico, dall’Europa o dal Fondo monetario internazionale.

La Turchia è uno dei paesi dove il covid-19 ha un enorme potenziale di destabilizzazione. Come altrove, anche qui l’epidemia non crea rotture, ma esaspera le lacune e le tensioni già presenti che nello specifico ruotano intorno alle manie di grandezza di un uomo, Recep Tayyip Erdoğan, capace di schiacciare tutti i suoi nemici ma colto alla sprovvista e indebolito dal virus.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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