Il tentativo di mediazione non aveva alcuna possibilità di successo. I quattro presidenti africani che sono andati a Kiev e poi a Mosca sono ripartiti senza aver ottenuto il minimo cambiamento nella posizione dei belligeranti.

Il fallimento è legato a due fattori: da un lato le ambiguità delle proposte e dello schieramento dei mediatori (il sudafricano Cyril Ramaphosa, il senegalese Macky Sall, lo zambiano Hakainde Hichilema, e il comoriano Azali Assoumani); dall’altro, il momento del loro intervento, in piena controffensiva ucraina, che non permette alcuna iniziativa di natura politica finché i rapporti di forze non si saranno stabilizzati.

L’Ucraina ha avuto la reazione più fredda davanti alle proposte africane. Questo perché interrompere i combattimenti oggi significherebbe “congelare” il conflitto favorendo la Russia e le sue acquisizioni territoriali, senza la minima garanzia che un ipotetico negoziato possa ristabilire la sovranità del paese.

Il gioco dell’aggressore
Nel piano africano, tra l’altro, era compresa una clausola del tutto inaccettabile per gli ucraini: la sospensione del procedimento della Corte penale internazionale nei confronti di Vladimir Putin, accusato di crimini di guerra. I capi di stato africani hanno visitato Buča, dove all’inizio dell’invasione russa è stato compiuto un massacro. Ma evidentemente non sono rimasti particolarmente scossi.

Se vogliamo guardare il lato positivo, possiamo sottolineare che è la prima volta in cui l’Africa, collettivamente, tenta una mediazione in un conflitto che non la coinvolge.

Ma è anche vero che il continente africano subisce le conseguenze del conflitto dal punto di vista dell’approvvigionamento alimentare, dei prezzi dell’energia e dei tassi d’interesse. Dunque l’Africa aveva tutte le ragioni per far sentire la propria voce. Il problema è che i presidenti africani hanno mancato un’occasione a causa delle posizioni divergenti nel continente. Gli africani, come altri paesi del sud globale, hanno buone ragioni per rifiutare di allinearsi automaticamente in un conflitto esterno al continente. Ma il non allineamento, in questo caso, fa il gioco dell’aggressore.

Né Kiev né Mosca vogliono sedersi al tavolo delle trattative mentre è in corso una battaglia decisiva

Un altro aspetto positivo è che l’iniziativa africana fissa dei paletti in vista del giorno in cui un negoziato sarà possibile, e mostra l’impazienza del resto del mondo davanti a questa ennesima guerra, anche se va detto che gli africani avrebbero fatto meglio a esprimersi più nettamente, e forse più brutalmente.
I negoziati non sono all’ordine del giorno, evidentemente. Né Kiev né Mosca vogliono sedersi al tavolo delle trattative mentre è in corso una battaglia decisiva.

L’Ucraina ha lanciato la sua controffensiva e spera di invertire i rapporti di forza. Volodymyr Zelenskyj non ha alcuna intenzione di negoziare prima di avere dimostrato sul campo di poter respingere i russi.

Lo stesso ragionamento vale per Vladimir Putin, convinto che il suo esercito sia capace di resistere all’assalto ucraino nonostante quest’ultimo possa contare sulle armi occidentali. Putin intende aggrapparsi alle sue conquiste territoriali, con la continuità tra il Donbass e la Crimea e il controllo del mare di Azov.

Insomma saranno le armi a decidere il momento in cui si potrà trattare. È ancora troppo presto per stilare un bilancio dell’offensiva ucraina, e questo nonostante gli annunci della conquista di villaggi e la distruzione spettacolare di un deposito di armi russo nella regione di Cherson, il 18 giugno. In questo contesto non è possibile alcuna mediazione, men che meno quella, imperfetta, degli stati africani.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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