18 marzo 2024 08:29

Alla fine neanche il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha potuto tirarsi indietro. La Germania, per motivi storici comprensibili, di solito non si permette la minima critica nei confronti di Israele. Eppure il 17 marzo, mentre si trovava in visita nello stato ebraico, Scholz ha aggiunto la propria voce al coro internazionale che rimprovera al primo ministro israeliano il costo umano enorme della guerra nella Striscia di Gaza.

Chiaramente le critiche più pesanti sono quelle che arrivano dagli Stati Uniti, ribadite recentemente da Joe Biden e addirittura da Chuck Schumer, la più importante personalità politica ebraica americana. Il capo della maggioranza democratica al senato ha chiesto un’uscita di scena di Netanyahu prima che Israele diventi uno stato “paria”. L’espressione usata da Schumer è molto forte, ma esprime ciò che pensano molti ebrei statunitensi.

Il 17 marzo Netanyahu ha contrattaccato sulla Cnn, accusando l’occidente di avere “la memoria corta” e di aver perso la propria “coscienza morale” nonostante i massacri del 7 ottobre. Secondo il primo ministro organizzare le elezioni in questo momento significherebbe sancire la sconfitta di Israele e la vittoria di Hamas. Tuttavia, come sa benissimo Netanyahu, il voto segnerebbe anche la sua personale sconfitta, se i sondaggi fossero confermati.

Il tono aspro di queste dichiarazioni dimostra che il primo ministro israeliano non è disposto a farsi influenzare, ma anche che gli americani non stanno esercitando una vera pressione. Gli Stati Uniti, infatti, continuano a fornire le armi che permettono di condurre una guerra di cui approvano l’obiettivo (l’eliminazione di Hamas) ma disapprovano i metodi.

Questa contraddizione si ritrova nel tragico caos umanitario a Gaza. Siccome non riescono a far aprire le frontiere a centinaia di camion di aiuti che aspettano di passare, gli statunitensi si limitano a dei gesti simbolici, come il paracadutare degli aiuti o costruire un porto temporaneo per tentare di consegnarli via mare.

L’idea di consegnare armi e allo stesso tempo consegnare medicinali non è sostenibile a lungo termine, soprattutto quando si verificano fatti sconvolgenti come la strage delle persone in fila per gli aiuti. Questa situazione diventerà ancora più insostenibile se Israele attaccherà Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.

Tutti i leader occidentali hanno chiesto allo stato ebraico di non attaccare la città, in cui più di un milione di civili vivono in condizioni terribili. Perfino Scholz ha inviato lo stesso messaggio. Ma il 17 marzo il primo ministro israeliano ha ribadito la sua volontà di mandare il suo esercito a Rafah.

Netanyahu ha anche proposto un paragone discutibile, sostenendo che non attaccare Rafah (e le forze di Hamas che vi si nascondono) sarebbe come aver lasciato intatto un quarto dell’esercito nazista e aver rinunciato a conquistare Berlino alla fine della seconda guerra mondiale.

Queste polemiche si aggiungono a una confusione generale. Netanyahu non è solo il bersaglio delle critiche internazionali, ma è in conflitto con diversi esponenti del suo gabinetto di guerra, con il suo ministro della difesa e con una parte dell’opinione pubblica israeliana che lo accusa di aver abbandonato gli ostaggi.

In questo clima, il 17 marzo sono ripresi a Doha i negoziati per un cessate il fuoco. Il problema è che sia Netanyahu sia Hamas hanno i propri motivi per proseguire questa guerra crudele, anche se il mondo intero ne vorrebbe la fine al più presto.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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