Poche ore dopo l’annuncio clamoroso con cui Donald Trump ha ipotizzato di costruire la “Costa Azzurra del Medio Oriente” nella Striscia di Gaza senza i suoi abitanti palestinesi, è sembrato che la portavoce della Casa Bianca volesse fare un passo indietro, come a sottolineare che il presidente si era lasciato trasportare dal suo entusiasmo di imprenditore immobiliare.
Ma Trump è tornato alla carica una seconda volta, poi una terza, tra interviste e interventi sul suo social network, Truth. Il 10 febbraio il presidente si è spinto ancora più in là con un’intervista a Fox News, dichiarando che i palestinesi non potranno più tornare a Gaza come aveva inizialmente suggerito. In sostanza, Trump ha detto che i palestinesi saranno talmente felici nei luoghi in cui gli saranno assegnate delle nuove case che non avranno alcun motivo per tornare nella Striscia.
Se qualcuno ha ancora il minimo dubbio sul fatto che il presidente degli Stati Uniti sia estremamente serio quando ipotizza questo scenario, considerato del tutto illegale dalla stragrande maggioranza del pianeta, il fatto che ne parli quasi ogni giorno dimostra che crede assolutamente in quello che dice. Ed è qui che le cose si fanno pericolose.
Trump sente le critiche ma tira dritto per la sua strada, dopo aver riconquistato la presidenza grazie a una volontà di ferro e alla convinzione che nessuno possa tenergli testa. Per lui tutto si basa sui rapporti di forza, convinto (senza sbagliare) che gli Stati Uniti siano in una posizione dominante nel mondo a livello militare, economico e tecnologico.
Il presidente però ha messo il dito in un ingranaggio delicato. Rivendicando la responsabilità del futuro di Gaza, Trump trascina gli Stati Uniti al centro delle crisi in Medio Oriente nonostante avesse dichiarato di volerne restare alla larga. Vuole risolvere il problema palestinese con le ricette dell’estrema destra israeliana e allo stesso tempo costruire una pax americana nella regione, avvicinando Israele all’Arabia Saudita.
Il problema è che nessuno stato arabo, tanto meno l’Arabia Saudita, approva il suo piano per Gaza. A prescindere dai loro reali obiettivi, infatti, i paesi arabi non vogliono essere complici di una nuova nakba, la catastrofe, come i palestinesi chiamano l’esodo forzato del 1948.
Trump dovrà fare una scelta. I paesi arabi si riuniranno alla fine del mese per definire una posizione comune, ma è già chiaro che l’Egitto e la Giordania, i due stati designati per accogliere gli oltre due milioni di palestinesi, si rifiutano categoricamente di farlo nel timore di una destabilizzazione e di una radicalizzazione all’interno delle loro società.
In Israele l’offerta di Trump è vista come una manna dal cielo, tanto che il 10 febbraio Benjamin Netanyahu ha detto alla knesset, il parlamento israeliano: “Volevate il piano per il ‘dopo’ a Gaza? Eccolo qua!”.
Ma prima di pensare al dopoguerra bisogna mettere fine alla guerra in corso. Il cessate il fuoco appare molto precario: il 10 febbraio Hamas ha sospeso la liberazione degli ostaggi accusando lo stato ebraico di aver violato i termini dell’accordo, mentre in Israele le pressioni per riprendere la guerra sono forti e non è sicuro che si arrivi alla seconda fase.
In questo contesto esplosivo, il fatto che Trump ripeta come un mantra che la vita a Gaza sarà formidabile ha qualcosa di singolare. Sarà un ottimo test del senso della realtà del presidente statunitense, nonché della sua capacità d’imporre la sua legge al resto del mondo.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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