Ci sono un buon risultato e un enorme punto interrogativo dopo il vertice tra Washington e Kiev tenutosi a Jedda, in Arabia Saudita, l’11 marzo. Il buon risultato, per l’Ucraina, è il ripristino degli aiuti militari e della condivisione delle informazioni d’intelligence da parte degli Stati Uniti, sospesi dopo lo scontro verbale alla Casa Bianca tra Zelenskyj e Trump. Per Kiev era una necessità assoluta dal punto di vista militare, ma anche un elemento fondamentale per il morale degli ucraini, costretti a combattere in situazione di inferiorità.

Il punto interrogativo invece riguarda tutto il resto. L’incontro tra Zelenskyj e i suoi due interlocutori statunitensi, il segretario di stato Marco Rubio e il consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz, alimenta forti dubbi.

Prima di tutto sulla forma: Rubio e Waltz sono repubblicani che sono tentato di definire quasi “normali”, scesi in campo con Trump più per necessità. In effetti, durante lo scontro verbale con Zelenskyj alla Casa Bianca è stato il vicepresidente JD Vance a condurre l’umiliazione pubblica, mentre Rubio, accanto a lui, abbassava lo sguardo con imbarazzo. Si tratta quindi di una messa in scena della formula “poliziotto buono, poliziotto cattivo”, come se ne vedono in molti film? O forse attorno a Trump lavorano gruppi ideologicamente contrapposti? A Jedda, in ogni caso, Rubio e Waltz si sono comportati come leader politici responsabili.

Nel corso del vertice l’Ucraina si è detta pronta ad accettare un cessate il fuoco di trenta giorni se la Russia farà altrettanto. Mosca, però, non ha ancora risposto.

È un momento strano per Kiev. Gli eventi delle ultime settimane sono stati molto complessi per il paese, che si è sentito abbandonato dagli Stati Uniti, uno degli alleati più importanti. Washington ha dato per acquisite le concessioni pretese da Mosca, dalla perdita dei territori conquistati dai russi alla fine delle speranze di un ingresso di Kiev nella Nato. La Russia nel frattempo non si è ancora espressa, limitandosi a rafforzare la propria posizione sul campo.

Un cessate il fuoco senza condizioni, per il momento ancora ipotetico, aprirebbe la strada a un processo inedito, ed è qui che cominciano i pericoli. Europa e Ucraina aspettano di capire fino a che punto Trump intende spingersi nella sua apertura a Putin. Questo aspetto, infatti, condiziona tutto il resto.

Il rischio principale è quello di una trappola per Kiev. L’Europa, che si è riunita il 10 marzo a Parigi in un vertice tra capi di stato maggiore, vuole evitare a tutti i costi che gli Stati Uniti appoggino la pretesa russa di smilitarizzare l’Ucraina. Uno sviluppo di questo tipo sarebbe una catastrofe: senza esercito, infatti, Kiev sarebbe in balia del Cremlino.

Oggi l’Ucraina può contare su un esercito di un milione di unità, che costituirà la prima linea di difesa davanti alle ambizioni russe, con gli europei schierati in seconda linea. Ma se Trump dovesse concedere a Putin la smilitarizzazione e l’assenza di garanzie di sicurezza significative, contribuirà di fatto alla capitolazione di Kiev.

Per fortuna non siamo ancora arrivati a questo punto, come dimostra il fatto che a Jedda Stati Uniti e Ucraina hanno parlato anche dell’accordo sui minerali. Non c’è nulla di meglio di un buon contratto da decine di miliardi di dollari, infatti, per suscitare l’interesse di Trump.

Se lo scenario di questi negoziati fosse stato scritto in anticipo, non sarebbe stato considerato credibile per quanto appare improbabile. Negoziare con il presidente statunitense significa essere costretti a complicate contorsioni, a volte con risultati sorprendentemente positivi, a volte no.

Ma siamo ancora molto lontani dalla fine della storia.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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