31 agosto 2018 16:40

Adoro il fatto che una scoperta culturale conduca a un’altra. Seguo sempre il filo che porta da una canzone a un film e poi a un libro, il che è il motivo per cui sono sempre grata dei consigli, di ogni piccolo pezzo di un tesoro che apre le porte a quello successivo.

Qualche giorno fa stavo creando una playlist che includeva You make me feel (Mighty real), e questo mi ha spinto a leggere un articolo di Alexis Petridis su The Guardian, che raccontava la storia della carriera di Sylvester e citava una biografia che non avevo mai letto: The fabulous Sylvester di Joshua Gamson. L’ho subito comprata e mi ha conquistato, poiché ha riempito molti dei vuoti che avevo sulla nascita della scena gay di San Francisco e sulla controcultura della fine degli anni sessanta. Pensavo di sapere molte cose sugli hippy, su Haight-Ashbury e sui fiori nei capelli. E pensavo di saperne su I racconti di San Francisco di Armistead Maupin e sul mondo degli incontri e dei locali gay. Ma qui era qualcosa di diverso, di poco conosciuto, al di fuori del rock’n roll e precedente alla disco: una sorta di misto tra cabaret e mondo hippy.

Le stelle di quel mondo erano i Cockettes, lo sgargiante gruppo di cui hanno fatto parte, tra i tanti, Divine e Sylvester, e che hanno creato delle “fantasie di mezzanotte degne di un Busby Berkeley sotto l’effetto di stupefacenti”. E quindi, dopo aver letto il libro su Sylvester sono passata al documentario The Cockettes del 2002, che ne racconta la vicenda, e ho scoperto la storia di un gruppo di disadattati, che avevano girato gli Stati Uniti in autostop cercando avventure e persone come loro.

Un giovane di nome George Harris, che un minuto prima era stato immortalato mentre inseriva un fiore nel fucile di un soldato, come un tipico studente universitario antimilitarista, l’attimo dopo aveva ottenuto un grande successo a San Francisco con il nome d’arte di Hibiscus, una sorta di “Gesù cristo col rossetto”. Gli altri gli ronzavano intorno come api sulla lavanda.

Alloggiati in diverse comuni, erano un’insolita miscela di hippy che cantavano canzonette. Il regista John Waters ha dichiarato che queste “acid-freak drag queen” erano uniche all’epoca, e lo sarebbero anche oggi. Ha ragione. Nei loro spettacoli tutto era all’insegna dell’anarchia: nessun copione, nessun programma, nessuna prova e alla fine era questa la loro forza.

Il film comincia nel 1971, quando la troupe di 47 artisti volò a New York per uno spettacolo all’Anderson theatre che avrebbe deciso la loro carriera, e al quale erano presenti “tutte le persone che contavano”. O almeno gente come Gore Vidal, Andy Warhol, Allen Ginsberg o Angela Lansbury. Quindi sì, tutti quanti.

Il loro atterraggio sulla costa est non fu facile. Gli hippy si scontrarono con i cinici, i sognatori californiani dovettero fare i conti con i duri newyorchesi, e lo spettacolo fu un flop. Troppo sgangherato per il pubblico di Broadway, ma anche non abbastanza estremo per quello di Warhol, per il quale le drag queen non erano niente di nuovo. Come disse qualcuno, “devi farcela a New York, e loro non ce l’hanno fatta”. Così, come accade spesso, la storia si fece triste. Le droghe diventarono più pesanti, l’eroina fece il suo ingresso in scena e quando questo accade, come ha detto Cockette Jilala, “finisce sempre tra le fiamme e la disperazione. È così che finisce”.

Da una canzone si passa a un articolo, poi a un libro, quindi a un film, e poi di nuovo a un libro

A questo punto volevo tornare là dove avevo cominciato, con il libro di Sylvester, e la gioia che deriva dalla lettura di un fantastico aneddoto dopo l’altro. Ai suoi esordi da drag queen, Sylvester era noto come Miss Dooni e, in un mondo in cui “ridicolo era il massimo dei complimenti, Miss Dooni era il più ridicolo di tutti”. E ancora, “per Dooni la parola eyes (occhi) non era abbastanza. E quindi la pronunciava aye-ees”.

La cosa migliore è la definizione di fabulousness (l’essere favoloso) di Gamson: “Fabulousness ha un non so che, come altre cose indefinibili: bellezza, amore, talento da star, buona televisione. Te ne accorgi perlopiù quando ti ci imbatti… I lustrini non fanno male. Le acque si aprono quando vedono arrivare il favoloso”.

Gamson individua un legame tra l’infanzia da bambino di chiesa di Sylvester e il modo in cui ci si vestiva in tali occasioni, con un particolare riferimento ai cappelli delle donne. E questo mi ha spinto verso un altro libro, scritto da Craig Marberry, Crowns, portraits of black women in church hats (Corone, ritratti di donne nere con cappelli da chiesa): “Cappelli a disco, cappelli a lampada, cappelli del tipo ‘perché devi sederti di fronte a me’, spesso decorati”. Da una canzone si passa a un articolo, poi a un libro, quindi a un film, e poi di nuovo a un libro. Tutto è legato in una catena senza fine.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

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