08 febbraio 2018 10:25

Non c’è nemmeno l’elettricità nella baracca che si è costruito con le sue mani. Mike ha messo una catena con un lucchetto per tenere chiusa la porta quando si allontana dalla sua stanza due metri per tre fatta di tavole, coperte e cartoni. “Non ho niente che si possa rubare e in fondo non me ne importa niente, entrino pure”, dice amareggiato in un perfetto inglese.

È nigeriano, ha 23 anni, è arrivato dalla Libia in Italia due anni fa, è stato trasferito in un centro di accoglienza in Sardegna, ma è scappato perché voleva raggiungere degli amici a Roma per lavorare. Nella capitale non ha trovato quello che sperava: un lavoro e una casa. Sta aspettando che la sua richiesta di asilo sia esaminata, ma intanto ha perso ogni diritto all’accoglienza, perché si è allontanato per più di tre giorni dal centro. Così è finito a vivere in una fabbrica abbandonata lungo via Tiburtina.

Nella struttura alloggiano 150 persone: il doppio rispetto a giugno del 2017 quando un altro capannone abbandonato della zona è stato sgomberato dalla polizia. Quello che sarebbe dovuto essere il distretto industriale di Roma, sulla via Tiburtina, si è trasformato in un quartiere fantasma tra sale giochi, cantieri stradali e capannoni abbandonati come quelli dell’ex fabbrica di penicillina Leo.

Espulsi dalla città
Decine di edifici industriali sono diventati un rifugio per le famiglie e le persone sole che hanno perso la casa o non ne hanno mai avuta una: c’è la tendopoli del Baobab in un parcheggio dietro alla stazione Tiburtina, c’è l’occupazione dell’ex sede del quotidiano La Stampa, quella di “palazzo Sudan”, e poi Tor Cervara, via Vannina, via Fabio Costi. Una città ai margini della città, una dimensione invisibile di baracche e stamberghe senza elettricità, senza riscaldamento e senza servizi igienici. Gli sgomberi avvenuti negli ultimi mesi hanno aggravato la situazione, costringendo molte persone rimaste senza casa a trovare rifugio nelle altre occupazioni già affollate.

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Mike aveva saputo da alcuni amici che nella periferia orientale di Roma, oltre il carcere di Rebibbia – tra l’Aniene e il Grande raccordo anulare – avrebbe potuto trovare un letto per dormire. Quando è arrivato non riusciva a credere ai suoi occhi: un palazzo fatiscente su due piani, piccole costruzioni di fortuna – una a fianco all’altra all’interno dell’edificio – e sul retro un’enorme discarica abitata da topi enormi. Una scala esterna porta al secondo piano dove si apre un altro ambiente. Le costruzioni di legno si avvicendano in un serpentone, alla fine si apre uno spazio comune usato per cucinare e mangiare, dove ci sono un tavolo, delle sedie e perfino un divano.

Anche farsi da mangiare non è facile, perché i fornelli funzionano solo con le bombole del gas, così gli abitanti dell’occupazione si sono organizzati in una specie di gestione collettiva. Alcuni cucinano e distribuiscono i pasti a tutti gli altri. C’è anche un piccolo negozio al secondo piano che vende i beni di prima necessità, perché i negozi più vicini sono a qualche chilometro di distanza. Mike viene da una famiglia del ceto medio dello stato nigeriano del Delta, dove faceva il musicista. Dopo un passaggio traumatico in Libia è arrivato in Italia via mare, sperando di ricominciare la sua vita e poter studiare e lavorare. Ma ora, se potesse, tornerebbe indietro.

“Non trovo nemmeno una cosa positiva in questo paese, se solo ottenessi i documenti me ne andrei”, afferma. Tuttavia anche tornare indietro non è facile, non ha i soldi per l’aereo e ha paura di non trovare niente di quello che ha lasciato. Le giornate passano tutte uguali: al piano terra nell’enorme stanzone circondato dalle baracche alcuni ragazzi hanno acceso un fuoco per riscaldarsi, la fuliggine e l’odore di fumo annebbia tutto. Una radio trasmette musica reggae. “A volte piango da solo nella mia stanza perché non vedo un futuro”, dice Mike.

Il fallimento dell’accoglienza
Dal novembre del 2017 l’edificio è presidiato da un’équipe di Medici senza frontiere (Msf) che arriva con un camper una volta ogni quindici giorni. “Abbiamo fatto diverse visite perché volevamo sapere se le persone hanno accesso ai servizi sanitari”, spiega Ahmad al Rousan, coordinatore del progetto. “Abbiamo capito che molti di loro non sanno di avere diritto all’assistenza sanitaria. Per esempio abbiamo avuto un ragazzo che si è completamente ustionato e non è andato al pronto soccorso nonostante le ustioni gravissime”, continua. “Oltre a questo edificio, stiamo monitorando tutto il territorio cittadino e a Roma stiamo documentando delle situazioni davvero critiche, dei veri e propri ghetti”, spiega Al Rousan.

Nel rapporto Fuori campo pubblicato l’8 febbraio, Msf denuncia una situazione diffusa di cattiva accoglienza in Italia che favorisce la nascita di ghetti e di aree disagiate in maniera capillare su tutto il territorio nazionale, sia in contesti urbani sia in quelli rurali. Secondo il rapporto, sono diecimila le persone che vivono in queste condizioni con “limitato o nessun accesso ai beni essenziali e alle cure mediche”. Gli insediamenti informali sono 47 in dodici regioni, e il 55 per cento di queste aree non ha accesso ai servizi. Inoltre i siti informali sono edifici abbandonati o occupati (53 per cento), luoghi all’aperto (28 per cento), tende (9 per cento), baracche (4 per cento), casolari (4 per cento), container (2 per cento). Questa situazione è in parte dovuta a un sistema di accoglienza ancora fondato “su strutture di accoglienza straordinaria, con scarsi servizi finalizzati all’inclusione sociale”.

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Al livello legislativo, inoltre, Medici senza frontiere denuncia un processo in atto che tende a rendere l’accoglienza nei centri sempre più una concessione e non un diritto. “Tra aprile e luglio 2016 la Commissione europea ha presentato un intero pacchetto di proposte di riforma del sistema di protezione internazionale dell’Unione tese a rimodellare ogni aspetto della procedura di accoglienza”, scrive Msf nel rapporto. Per esempio l’accoglienza può essere ridotta o revocata se i richiedenti asilo non rispettano le regole del centro a cui sono stati assegnati.

“Già ora tra le persone che vivono in queste condizioni ce ne sono molte che sono state mandate via dai centri di accoglienza per futili motivi”, continua Al Rousan. L’espulsione dai centri alimenta una specie di circuito parallelo di insediamenti informali che ha dei fulcri storici nella penisola: i ghetti pugliesi della Capitanata e quelli calabresi, la provincia di Caserta, gli edifici occupati di Roma, a cui dal 2016 si sono aggiunti gli insediamenti informali sorti vicino alle aree di frontiera come Ventimiglia, Como, il Brennero, Udine e Gorizia.

Chi non ce la fa a passare la frontiera torna negli insediamenti informali, spesso spostandosi da una città all’altra in cerca di un lavoro. Nell’ottobre del 2017 il ministero dell’interno ha varato il Piano nazionale integrazione, che contiene indicazioni generali sulla questione abitativa dei richiedenti asilo e dei rifugiati, ma non prevede lo stanziamento di risorse specifiche per favorire l’inclusione sociale.

Il problema della residenza
A Roma sono state censite più di cento occupazioni, alcune sono organizzate dai diversi movimenti di lotta per la casa. In questi insediamenti vivono almeno 600 richiedenti asilo e rifugiati, pari al 20 per cento degli occupanti, secondo il rapporto di Msf. Soprattutto negli ultimi cinque anni, le occupazioni hanno svolto un ruolo di decompressione rispetto alla carenza di posti nel sistema di accoglienza. Nelle occupazioni, italiani e stranieri spesso convivono e condividono gli stessi problemi.

Nell’ex sede dell’Inpdap occupata nel 2012, vivono circa 400 persone, tra le quali un centinaio di richiedenti o titolari di protezione internazionale. Tra i residenti ci sono anche italiani. Le attività all’interno dell’edificio comprendono uno sportello di orientamento legale, corsi di italiano, laboratori di falegnameria, serigrafia e corsi di teatro in collaborazione con scuole del quartiere. Gli occupanti hanno anche sviluppato un progetto di accoglienza temporanea – dai 3 ai 12 mesi – che coinvolge quasi esclusivamente richiedenti asilo e rifugiati (dodici in tutto) inseriti in specifici percorsi di integrazione sociale, come corsi di formazione professionale.

Una donna marocchina con il figlio di tre anni nella ex sede dell’Inps di viale delle Province a Roma, settembre 2017. (Alessandro Penso, Msf)

Anche nella ex sede dell’Inps di viale delle Province, occupata nel 2012, tra i circa 500 occupanti vivono poco meno di cento tra richiedenti asilo e titolari di protezione. Insieme a palazzo Selam e a palazzo Naznet – le due occupazioni storiche di rifugiati provenienti dall’Eritrea e dal resto del corno d’Africa, la cui popolazione si è ulteriormente ingrandita dopo lo sgombero di piazza Indipendenza dell’agosto 2017 – l’edificio è inserito nella lista dei siti da sgomberare in via prioritaria inclusa nella delibera numero 50 del 2016 dell’ex commissario straordinario Tronca.

Nel “palazzo Sudan” vivono un centinaio di rifugiati sudanesi, che erano stati sgomberati dall’”hotel Africa”, un altro insediamento informale vicino alla stazione Tiburtina. La struttura è stata finanziata nel corso degli anni da programmi di accoglienza pubblici. Quando sono finiti i fondi, i rifugiati sono rimasti nella palazzina senza alcuna forma di intervento dello stato. Negli ultimi mesi, la fornitura di gas è stata tagliata e l’erogazione di energia elettrica ridotta.

“La cronica carenza di posti in accoglienza e gli sgomberi in assenza di soluzioni abitative alternative stanno determinando il moltiplicarsi di insediamenti spontanei, in edifici abbandonati lontani dal centro, dove l’invisibilità si accompagna a condizioni di vita di assoluto degrado, con uomini, donne e minori che non riescono ad accedere ai beni più elementari”, scrive il rapporto. Uno dei problemi principali è la difficoltà a ottenere la residenza anagrafica in base al cosiddetto decreto Lupi (il decreto legge 47 del 2014) sull’emergenza abitativa. La mancanza di questo requisito implica la difficoltà ad accedere a molti servizi di base come le cure mediche presso il servizio sanitario nazionale.

Dal marzo del 2017, l’amministrazione comunale di Roma ha deciso di usare la residenza anagrafica fittizia di via Modesta Valenti, già usata per i senza dimora, anche per i migranti presenti negli insediamenti informali. Ma il rapporto Fuori campo di Msf denuncia che l’applicazione della delibera resta discrezionale e non funziona allo stesso modo in tutti i municipi della città. “Le principali differenze riguardano non solo i tempi per il rilascio della residenza, ma anche le modalità di accesso e l’elenco dei documenti richiesti”. Di recente la questura di Roma ha cominciato a chiedere la residenza per il rinnovo del permesso di soggiorno, provocando una situazione in cui i migranti rimangono ingabbiati nella burocrazia, senza possibilità di riuscire a ottenere nessuno dei due documenti.

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