30 luglio 2018 10:00

Non lo avevano detto neanche all’interprete. Certo, lei aveva capito che c’era in ballo qualcosa di importante, visto che un pezzo grosso della Bekaert arrivava dal quartier generale in Belgio a Figline e Incisa Valdarno, 24mila abitanti a pochi chilometri da Firenze. Nel 2014 la multinazionale dell’acciaio – 30mila dipendenti e 4,8 miliardi di fatturato – aveva comprato dalla Pirelli lo stabilimento dove si produce un componente fondamentale degli pneumatici, un filo d’acciaio (steel cord) usato per costruirne lo scheletro.

Yvan Lippens, vicepresidente della Bekaert, è arrivato il 22 giugno 2018 per incontrare i rappresentanti dell’azienda toscana, convocati appena svegli qualche ora prima. Lippens era accompagnato da due guardie del corpo e dall’interprete, che quando ha capito cosa doveva dire è impallidita e ha vacillato. “Le sue mani tremavano”, raccontano i presenti.

Quel che doveva dire era stato scritto anche nelle 318 lettere raccomandate che nel frattempo stavano raggiungendo le case degli operai e degli impiegati della “ex Pirelli” – così la chiamano ancora qui. “Caro collega”, si legge nella lettera – “caro collega”, ha scritto Lippens – la fabbrica chiude, tutti fuori. Licenziamento collettivo. La produzione è spostata in Romania.

Sangue freddo
Lo choc dell’interprete non è stato niente rispetto a quello degli operai e dei sindacalisti convocati in fretta e furia. “Mi hanno telefonato alle 8 del mattino”, racconta Daniele Calosi, segretario provinciale della Fiom. Lo stesso hanno fatto con i due rappresentanti di fabbrica dei metalmeccanici della Cgil, i tre della Fim e quello della Uilm. Negli stessi minuti, anche la sindaca Giulia Mugnai, del Partito democratico, e le forze dell’ordine erano state avvertite.

C’era qualche motivo per farlo. Dentro la sala riunioni dell’azienda, il clima s’era surriscaldato subito. La notizia si era diffusa immediatamente, insieme al panico e alla rabbia. Arrivavano mogli e figli, con in mano le lettere che intanto gli erano state consegnate. E poi i lavoratori dell’indotto, un centinaio. Parapiglia, tensione, mediazione sindacale per far uscire il dirigente dalla fabbrica senza incidenti.

“Lo scortavano i carabinieri, oltre che le guardie del corpo”, racconta Calosi. “Pensi lo stupore quando abbiamo visto che in auto c’erano anche i manager italiani”. Risultato: la mattina del 22 giugno scorso, la fabbrica resta senza futuro e senza dirigenti. Racconta ancora Calosi: “I lavoratori hanno mantenuto il sangue freddo. Hanno messo tutto in sicurezza, visto che qui ci sono anche produzioni delicate, fatte con agenti chimici, pericoli per l’ambiente. Hanno fermato tutto e poi hanno cominciato a scioperare”.

Da allora, la vicenda della Bekaert si è aggiunta alla lunga lista di crisi che il vicepresidente del consiglio e ministro dello sviluppo economico e del lavoro Luigi Di Maio si è trovato sul tavolo, a Roma, il giorno del suo insediamento. E a Figline e Incisa è cominciata un’altra storia. La storia di un’azienda, di fatto, in autogestione.

Non solo Bekaert
Il 18 luglio, il ministro dei cinquestelle si è presentato a Montecitorio per un’informativa urgente. Ha preso la parola e ha dato i numeri: sono 144 i tavoli di crisi aperti al ministero – dalla siderurgia agli elettrodomestici, alla logistica – e a essere coinvolti sono 189mila lavoratori: “Migliaia di famiglie che vedono la loro serenità economica e il loro futuro a rischio”, ha detto. Le delocalizzazioni in corso sono 31, mentre 320 aziende sono in amministrazione controllata e in 229 è in corso un processo di ristrutturazione.

Una su tutte: l’ex colosso della grande distribuzione Mercatone Uno, che ha 3.100 dipendenti e più o meno altrettanti creditori. Per sua stessa ammissione, il quadro non è completo perché “nel calcolo non sono state incluse, se non parzialmente, le crisi di esclusivo ambito territoriale in cui il ministero non viene coinvolto” e che riguardano in genere piccole e medie imprese.

Le sanzioni per le delocalizzazioni non valgono per le crisi in corso

In due mesi di governo non è passato un giorno in cui il ministro non sia stato alle prese con una vertenza. Appena due giorni dopo la nomina, come primo atto da ministro del lavoro, Di Maio ha convocato i rider, i lavoratori che fanno le consegne a domicilio, “simbolo di una generazione abbandonata senza tutele e contratto”. In via XX Settembre a Roma si sono seduti sei fattorini bolognesi, un romano e Paolo Bellino, Rotafixa, noto attivista per i diritti dei ciclisti, blogger e per un breve periodo consulente della sindaca di Roma Virginia Raggi.

“Di Maio ha ascoltato e preso appunti, come uno studente”, racconta Bellino, colpito dall’immagine di un gruppo di trentenni “invisibili e bistrattati dalla vita” che si sono trovati a parlare con un loro “ultravisibile” e potente coetaneo. A quel primo incontro ne sono seguiti altri due, ai quali hanno partecipato pure i sindacati, e alla fine è arrivato l’accordo: i fattorini che consegnano il cibo a domicilio con bici, scooter e motocicli saranno inquadrati con il contratto nazionale della logistica, come “personale viaggiante”, con qualche diritto e garanzia in più rispetto al nulla del passato.

Agli inizi di luglio, il ministro è andato a visitare un’azienda in via di chiusura, la Invatec-Medtronic di Torbole Casaglia, nel bresciano, proprietà di una multinazionale statunitense. Qui ha annunciato l’imminente varo delle norme contro le delocalizzazioni. “Speriamo di poter fermare questa assurdità con le aziende che vanno bene, il loro business continua ma i lavoratori perdono il posto”, ha detto, senza aggiungere che le sanzioni per chi prende finanziamenti pubblici e scappa prima che siano trascorsi cinque anni non varranno per le crisi in corso e dunque per i 300 dipendenti della Invatec.

L’Ilva e gli operai che votano M5s
Ma le vere sfide che attendono il vicepresidente del consiglio e ministro riguardano soprattutto l’Ilva e l’Alitalia. Se la vertenza dei rider aveva un valore simbolico forte per il Movimento 5 stelle, quella delle acciaierie pugliesi è una scommessa ancora più grande, per le implicazioni politiche e sociali che si porta dietro. L’M5s ha cavalcato la battaglia degli ambientalisti per la chiusura dell’impianto e la sua totale riconversione, ma la realpolitik impone di salvare 15mila posti di lavoro, difficilmente ricollocabili in caso di stop definitivo alla produzione.

Il ministro può contare su una certa fiducia, sia tra gli ambientalisti sia nei sindacati. La Fiom – le federazione dei metalmeccanici della Cgil, tradizionalmente i più a sinistra nel panorama confederale – ha inviato al ministero il suo segretario nazionale Rosario Rappa, che non ha mai nascosto le sue simpatie per i cinquestelle (“Le loro parole d’ordine sono anche le nostre”, ha dichiarato pubblicamente).

A sinistra: Luciano Mealli, 52 anni, responsabile del magazzino manutenzione. Lavora alla Beakaert da 31 anni. A destra: Marcello Gostinelli, 56 anni, addetto al collaudo del prodotto. Lavora alla Bekaert da 35 anni. (Michele Borzoni, TerraProject)

Solo l’Agenzia nazionale anticorruzione (Anac), guidata dal magistrato Raffaele Cantone, ha fatto le pulci al piano industriale presentato dalla ArcelorMittal, che vuole comprare l’Ilva. Venerdì 20 luglio, davanti all’aula della camera semideserta, Di Maio – che già aveva incontrato i sindacati e l’azienda chiedendo a quest’ultima di fornire “garanzie certe per l’occupazione” e per il “miglioramento ambientale” – ha ammesso le “criticità” rilevate dall’Anac, sia sul piano ambientale sia della procedura seguita nella gara d’appalto.

Fino a qualche giorno fa, nei corridoi del ministero trapelava un certo accordo sulla proposta dell’ArcelorMittal. La multinazionale indiana manterrebbe 10.500 posti di lavoro; mentre il governo, attraverso i commissari liquidatori, assumerebbe 3.200 lavoratori per le bonifiche. L’azienda li riassumerebbe nelle acciaierie una volta finiti i lavori, nel 2023. Rimarrebbero fuori 500 operai, i più vicini alla pensione, ai quali sarebbero garantiti incentivi economici per l’uscita.

Ma il 24 luglio c’è stato un nuovo sviluppo. “A seguito delle verifiche interne sul dossier Ilva e del parere fornito dall’Anac si ritiene che ci siano i presupposti per avviare un procedimento amministrativo finalizzato all’eventuale annullamento in autotutela del decreto del 5 giugno 2017 di aggiudicazione della gara”, scrive in una nota il ministero dello sviluppo e del lavoro. Eppure, scrive Il Sole 24 ore, l’ArcelorMittal aveva accettato le richieste che gli erano state fatte. “È un atto dovuto”, ha detto Di Maio, aggiungendo che intanto continueranno i confronti con la multinazionale indiana.

Alla Fiom, i più critici sostengono che il sì da parte del sindacato all’accordo sarà una sorta di legittimazione definitiva del governo, una luna di miele che non si vedeva dai tempi della concertazione con i governi di centrosinistra, poi cancellata dal governo Renzi.

Il giudizio non cambia se si chiede alla Cgil un parere sul lavoro del ministro Di Maio. Nella sede nazionale di corso d’Italia, a Roma, ufficialmente sospendono il giudizio, criticano qualche mancata convocazione e alcuni aspetti del decreto dignità – come i voucher o la timidezza sulla reintroduzione dell’articolo 18 sui licenziamenti senza giusta causa – ma a microfoni spenti confessano che l’atteggiamento nei confronti del neoministro “non è ostile”. Il problema, spiegano sia alla Cgil sia alla Fiom, è il rapporto con la base. Più di un terzo degli iscritti ha votato cinquestelle. “Quando andiamo nelle fabbriche se parliamo male del governo ci saltano addosso, non possiamo non tenerne conto”, spiegano.

Il rebus Alitalia
Una volta chiusa la partita dell’Ilva, il governo avrà pochi mesi per risolvere il rebus Alitalia. La compagnia di bandiera ha bruciato 400 dei 900 milioni di euro del prestito ponte concesso dal governo Gentiloni. Sul Corriere della Sera l’economista dell’università Bicocca di Milano, Andrea Giuricin, ha stimato che i salvataggi degli ultimi dieci anni siano costati allo stato quasi nove miliardi e mezzo di euro. La direzione generale della concorrenza dell’Unione europea ha acceso i riflettori sul caso e i diecimila dipendenti della compagnia aerea aspettano di conoscere che ne sarà di loro.

I possibili compratori, a cominciare dalla tedesca Lufthansa, si dicono interessati a patto che qualcuno faccia prima il lavoro sporco al loro posto, riducendo drasticamente costi e posti di lavoro. È anche per questo, probabilmente, che il ministro dei trasporti Danilo Toninelli ha paventato l’ipotesi di una nuova nazionalizzazione attraverso la cassa depositi e prestiti, con un partner privato socio di minoranza al 49 per cento. Secondo gli esperti, questa operazione costerebbe non meno di 3,5 miliardi.

Di Maio ha annunciato che lavorerà “con i partner internazionali per trovare un futuro all’azienda”. La linea rossa è fissata a dicembre, quando scadrà il prestito concesso ai commissari liquidatori.

I casi in bilico, quelli risolti e quelli dimenticati
Tra le crisi ereditate da Di Maio, ce ne sono anche un paio risolte dal precedente ministro Carlo Calenda. Mancava solo l’atto finale. La torinese Embraco, con i suoi 417 lavoratori passati alla compagnia sinoisraeliana Ventures, produrrà robot per pulire i pannelli fotovoltaici; l’Alcoa di Portovesme, in Sardegna, acquistata dalla multinazionale svizzera Sider Alloys – con una partecipazione al 20 per cento della Invitalia e il 5 per cento ai lavoratori – dopo sei anni di chiusura dovrebbe finalmente ricominciare a produrre alluminio.

Altri casi sono ancora in bilico. Dal call center dell’Almaviva – che gli addetti ai lavori definiscono come una situazione “incancrenita”, con un migliaio di lavoratori a rischio – alle acciaierie ex Lucchini di Piombino. Comprate dagli indiani della Jindal South West con un piano industriale che prevede la riassunzione dei duemila lavoratori, al momento può contare solo su 435 operai. Gli altri sono in cassa integrazione, nell’attesa di un graduale riassorbimento, fino a un totale di 1.500.

Salvatore Barone, responsabile industria della Cgil, pone l’accento su tre casi dimenticati. Il primo è quello dell’ex stabilimento della Fiat di Termini Imerese, in Sicilia, ora in mano alla Blutec, che produce componenti per autovetture e ha riassunto per ora solo 120 lavoratori su 1.200, in attesa della nascita di un centro di ricerca sulla mobilità sostenibile. Il 18 luglio Di Maio doveva andare in azienda per un confronto, ma all’ultimo momento ha dato forfait, innervosendo operai e sindacati.

A sinistra: Antonio Corona, 49 anni, operaio cordatore. Lavora alla Bekaert da 15 anni. A destra: Giovanni Tarchi, 49 anni, operaio specializzato alle cordatrici. Lavora alla Bekaert da 19 anni. (Michele Borzoni, TerraProject)

Alle 23.55 della sera prima un’email inviata da un funzionario del ministero annunciava che la riunione si sarebbe tenuta al ministero a mezzogiorno, oppure sarebbe stata annullata. Ma neanche in questo caso il ministro si è presentato, facendo esplodere definitivamente le proteste. “Non vorrei che ci fossero vertenze di serie A e vertenze di serie B”, ha accusato il sindaco di Termini Imerese, Francesco Giunta. “I lavoratori siciliani non esistono, né meritano attenzione”, ha polemizzato il deputato siciliano del Pd Carmelo Miceli. Nell’informativa alla camera sui tavoli di crisi, Di Maio non aveva neppure citato la Blutec.

La seconda vicenda dimenticata è quella della Iribus in valle Ufita, nell’avellinese, l’unica azienda insieme alla Menarini di Bologna a costruire autobus in Italia. La fabbrica è stata rilevata dalla Industria Italiana Autobus, ma solo poche decine di lavoratori sono rientrati a lavoro e la produzione langue. La terza storia ignorata è quella dell’Alcoa nel Sulcis Iglesiente, in Sardegna, chiusa da cinque anni. Come lo stabilimento di Portovesme, è passata agli svizzeri della Syder Alloys, ma la produzione è ancora ferma. E i lavoratori rimangono in cassa integrazione.

Tra le aziende in crisi c’è pure la Natuzzi. La soluzione della vicenda potrebbe diventare un caso da manuale: la catena di mobilifici ha accettato di non licenziare nessuno e soprattutto di tornare a investire in Italia, riportando a casa alcune produzioni che aveva spostato all’estero. In gergo è definita “territorializzazione” ed è la risposta alle delocalizzazioni sanzionate dal decreto dignità firmato da Luigi Di Maio. È quello che sperano pure a Figline Valdarno.

La chiusura all’orizzonte
Fuori dei cancelli della Bekaert c’è un grande cartello su cui gli operai fanno il conto alla rovescia: segna i giorni che mancano alla chiusura. Dentro si lavora normalmente, come è stato deciso nell’assemblea convocata dopo l’incontro con Yvan Lippens, vicepresidente della multinazionale.

“Non volevamo chiudere, conosciamo il nostro lavoro, sappiamo che gli ordini ci sono”, dicono gli operai. A un certo punto però si sono accorti che i camion con il materiale da lavorare erano rimandati indietro, non entravano ai cancelli. “Allora s’è mandata una pec”, riepiloga Calosi: una lettera con posta certificata per dire che così si stava configurando una serrata. L’azienda ci ha ripensato, permettendo ai camion di entrare, la produzione è andata avanti, si sono riaffacciati anche i capi locali.

Intanto il conto alla rovescia va avanti, ci sono state proteste a Roma e incontri al ministero, ma l’azienda non dà alcun segnale di voler fare marcia indietro. Il sindacato chiede il ritiro dei licenziamenti e l’avvio di una trattativa. La Bekaert risponde che l’impianto è insostenibile e va chiuso. Ha “costi strutturali” troppo alti, dicono.

Ma l’annuncio della chiusura è stato davvero inaspettato? Dalle parole dei lavoratori della Bekaert – età media cinquant’anni, quasi tutti ex operai della Pirelli, anche perché i nuovi, gli interinali, sono stati mandati via per primi – si capisce che qualche nube l’avevano intravista.

Gianni Tarchi, delegato sindacale, 49 anni, l’anno prossimo avrebbe festeggiato il suo ventennale nell’azienda. Alla prima assemblea cittadina si è commosso e ha commosso tutti. Ora va indietro con la memoria, torna all’inizio del 2018. Spiega che i primi allarmi si sono diffusi quando il bilancio registrava cinque milioni e mezzo di perdite, e “sapevamo che intanto stava arrivando alla fine l’accordo fatto con Pirelli, che obbligava Bekaert a produrre qui lo steel cord per tre anni”.

I sindacati avevano chiesto un incontro all’azienda, che a marzo aveva rassicurato tutti: l’impianto toscano è centrale, certo va “efficientato”, ma garantiamo la produzione, eccetera eccetera. E invece. “Lo dovevamo capire quando hanno cominciato a caricare su di noi i costi di ricerca e sviluppo”, dice un altro operaio, Lorenzo La Spina. A Figline e Incisa Valdarno per due anni hanno fatto ricerca per rendere il prodotto più resistente e produrlo a costi minori. “Siamo andati in giro per il mondo a insegnare agli altri operai della Bekaert come si fa”. Ora che hanno imparato, qui chiudono. Il perché è facile da capire se si tiene conto di alcuni numeri che ai cancelli dell’ex Pirelli passano di bocca in bocca: 650 e 108 euro, rispettivamente il costo di una tonnellata di steel cord in Italia e in Romania; 1.500 e 280 euro, rispettivamente il salario di un operaio italiano e uno romeno.

I delegati della Bekaert sperano ancora in un margine di trattativa: “Pensiamo a una reindustrializzazione, ma l’azienda deve fare il suo”. Il problema è che la multinazionale non vuole rivedere minimamente i suoi piani. Il 5 luglio al ministero c’è stato un incontro disastroso, tanto che Di Maio ha parlato di “arroganza” dei proprietari: “Ho fatto una legge sulle delocalizzazioni, il problema è che non è retroattiva e quindi non vale per questi signori qui”. Ma la Bekaert non ha usato aiuti pubblici per comprare lo stabilimento dalla Pirelli e quindi non rientrerebbe comunque nella casistica prevista dal decreto dignità. E così, il ministro immagina una sorta di ritorsione: “Questo governo si premurerà di andare in giro per il mondo a raccontare la poca attendibilità di questa multinazionale”.

Da quell’incontro, la trattativa non ha fatto alcun passo avanti, con l’azienda ferma nella sua posizione e il sindacato che chiede la revoca dei licenziamenti e l’attivazione degli ammortizzatori sociali. Il ministro non ha più presenziato agli incontri. Il 31 luglio, forse, si scoprirà qualche carta.

Tuttavia, senza interventi concreti, l’alternativa è il deserto nell’area dove la ex Pirelli in tempi buoni occupava fino a 1.200 operai. I 318 di oggi, se si chiude, avranno solo la nuova assicurazione sociale per l’impiego (Naspi), l’assegno che ha sostituito la cassa integrazione: due anni per chi ha più di cinquant’anni, 18 mesi per chi ne ha meno. Ma sarà difficile trovare una ricollocazione. Per questo tutta la città si sta muovendo. “Durante la prima marcia, tutti i commercianti hanno chiuso per solidarietà”, racconta la sindaca Mugnai.

Intanto è stata lanciata un’altra protesta, quella dei tappi. In altre sedi la Bekaert produce un filo molto più sottile, ma altrettanto strategico: quello che tiene fermi i tappi di spumante, prosecco e champagne. Gli operai dell’azienda toscana hanno lanciato un appello ai produttori italiani a boicottare i fermatappi della Bekaert, se la fabbrica chiuderà. Si spera di avere più ascolto da quelle parti, visto che la Pirelli – committente del filo per pneumatici – non sembra toccata dal futuro dello stabilimento che un tempo gli apparteneva.

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