Il primo ministro ungherese Viktor Orbán l’ha fatto di nuovo. Negli ultimi dodici mesi le uova e le patate erano diventate così care che il premier si è convinto di dover mettere un tetto al loro prezzo. Alla metà di novembre un decreto del governo ha stabilito che il prezzo delle uova andava riportato al livello di fine settembre, scendendo così del 25 per cento. Nell’ultimo anno il prezzo delle uova era aumentato del 90 per cento. L’Ungheria ha uno dei tassi d’inflazione più alti d’Europa. A ottobre ha raggiunto il 21 per cento. L’aumento dei prezzi dei generi alimentari è particolarmente drammatico: è arrivato al 40 per cento e colpisce in modo duro una popolazione relativamente povera come quella ungherese. I motivi dei rincari sono vari. La guerra in Ucraina ha fatto salire i prezzi dell’energia e dei generi alimentari. E, come se non bastasse, quest’estate l’Ungheria è stata colpita dalla siccità, che ha provocato ulteriori rincari.

La battaglia di Orbán contro l’inflazione è disperata e si basa su uno strumento criticato da molti economisti: i prezzi calmierati. In effetti il premier ne conosce bene gli effetti indesiderati. Nel novembre del 2021 Budapest ha imposto un limite di 480 fiorini al litro (1,18 euro) per la benzina, ma non ci sono stati i risultati sperati, visto che il carburante scarseggia. Orbán trascura il fatto che un prezzo artificialmente basso stimola la domanda e provoca una carenza dell’offerta. Gli automobilisti delle vicine Austria e Slovacchia, per esempio, hanno cominciato a fare rifornimento in Ungheria, mentre le aziende petrolifere internazionali stanno riducendo le forniture al paese, perché altrove fanno affari migliori.

In seguito sono arrivati dei correttivi, ma le conseguenze sono state ancora più assurde: ora solo i privati, i tassisti e gli autisti di macchine agricole possono fare il pieno a prezzo agevolato, ma non chi guida un’auto aziendale. A quanto pare, però, proliferano gli accordi ufficiosi: alcune persone comprano la benzina a 480 fiorini al litro e la spacciano per poco meno dell’attuale prezzo di mercato: 697 fiorini.

Gli economisti si chiedono quali potrebbero essere le conseguenze sul mercato delle uova e delle patate. Ci saranno problemi simili a quelli sperimentati con la benzina? I primi effetti già si vedono, anche se i prezzi calmierati sono in vigore da pochi giorni: i commercianti hanno messo un limite alle quantità di patate e uova che può comprare una sola persona. Gli esperti ipotizzano che anche questi prodotti potrebbero presto scarseggiare, perché i produttori sono più inclini a vendere la merce all’estero, dove realizzano guadagni più alti. Alcuni temono che le patate ungheresi possano esaurirsi già entro l’inizio del 2023, costringendo il paese a importarle. Ma costerebbero care, perché il fiorino si è svalutato. Inoltre gli allevatori potrebbero chiedersi se sia ancora conveniente produrre uova, anche perché i costi per il mangime e il riscaldamento delle stalle continuano ad aumentare.

Una manovra impensabile

A quanto pare, Orbán non si perde d’animo di fronte a queste minacce, visto che non è il solo in Europa a cercare di contrastare l’inflazione. Dal punto di vista finanziario, tuttavia, l’Ungheria non può permettersi le costose manovre di sostegno decise da altri paesi. “Il bilancio pubblico è in pessime condizioni”, afferma l’economista e giornalista Zoltán Farkas. Secondo le stime degli esperti, l’Ungheria chiuderà il 2022 con un deficit di bilancio pari al 5 per cento del pil. Budapest sovvenziona in parte le spese per l’energia, ma una manovra paragonabile a quella decisa dalla Germania per ridurre i prezzi dell’elettricità e del gas è impensabile

Ora Orbán chiede uno sforzo a produttori e rivenditori. Il premier ha imposto oneri soprattutto al commercio, che è in gran parte controllato da aziende straniere come Lidl, Tesco e Auchan. Queste pagano già una tassa speciale perché, secondo il governo, incassano più profitti grazie all’inflazione. Ma, colpendo produttori e commercianti, Orbán accetta implicitamente che il paese vada sempre più verso “un’economia della scarsità” che, come osservano ironicamente alcuni, in fondo conosce da prima del 1989. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1488 di Internazionale, a pagina 108. Compra questo numero | Abbonati