A un autore di colonne sonore chiesi perché nei film italiani si faccia tanto ricorso a chitarre e violini, e perché, anche a fronte di dialoghi ben scritti, il regista senta l’esigenza di pomparli con tappeti mielosi. Mi rispose che questo succede quando gli attori non riescono a commuovere come si vorrebbe. Da allora ogni volta che sento sopraggiungere gli archi scatta in me una sorta di difesa pregiudiziale, i personaggi perdono profondità e le loro parole mi attraversano come aria fresca. Sul delicato rapporto tra immagini e musica possiamo tornare a riflettere in questi giorni di guerra. Molti reportage dal fronte, con il drammatico corollario di morte e disperazione, affidano alla colonna sonora la loro chiave emozionale. Gli ottimi servizi di Francesca Mannocchi (La7), per esempio, impastano i silenzi, le urla e gli affanni delle città invase a brani bellissimi e strazianti. La musica avvolge le immagini saturate di luoghi senza più anima con una forza espressiva che travalica la guerra stessa. Quello che giunge alle nostre orecchie è un dolore assoluto, così puro da non avere più contesto. Va oltre le ragioni geopolitiche, i negoziati e i bollettini. Grazie alle note quell’abisso si dota di un linguaggio filmico, di un racconto autorale che trasforma la cronaca bellica in un sentire esistenziale. Alla fine forse, questo slittamento emotivo, questo andare altrove, è per noi spettatori l’unico modo che ci è concesso per disertare. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1452 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati