Anche a Hong Kong è ricominciato l’anno accademico. A tre anni dalle proteste del 2019, che chiedevano democrazia e suffragio universale e si sono concluse con più di diecimila arresti e l’imposizione della legge sulla sicurezza nazionale, oggi le università sono uno dei luoghi dove il desiderio di Pechino di rimodellare Hong Kong a sua immagine e somiglianza è più evidente. Le associazioni studentesche sono state chiuse, accusate di essersi macchiate di crimini previsti dalla legge sulla sicurezza nazionale (sovversione, terrorismo o collusione con forze straniere) oppure dalla legge contro la sedizione, risalente all’era coloniale ma ancora in vigore, che punisce l’incitamento alla violenza contro il governo. La legge contro la sedizione non veniva usata da cinquant’anni, ma quello che è successo nel 2019 l’ha fatta tirare fuori dai cassetti.

Camminando di fianco ai locali dell’Unione studentesca dell’università di Hong Kong – un ateneo dove s’insegna in inglese, tra i più prestigiosi del territorio – non si vedono più le bacheche tappezzate di orari di proiezioni di film, conferenze, dibattiti e soprattutto di slogan politici: i muri sono stati ripuliti e resta solo qualche pezzo di colla che reggeva i manifesti strappati.

Tutti gli insegnanti devono “instillare il patriottismo” negli allievi, e a questo scopo sono stati distribuiti materiali per spiegare i princìpi alla base della legge sulla sicurezza nazionale

All’università cinese di Hong Kong l’anno accademico è stato inaugurato con un alzabandiera. C’erano il ministro della sicurezza Chris Tang; il capo della polizia Raymond Siu e il suo vice Joe Chow, Xu Kai, responsabile dell’educazione dell’ufficio di rappresentanza di Pechino a Hong Kong, e Deng Jianwei, dall’ufficio di sicurezza cinese. Dato che la città continua a imporre pesanti misure contro la pandemia, tutti i presenti portavano una mascherina viola.

Il politecnico invece ha accolto l’apertura dell’anno accademico con una mascherina rossa. Qui nel novembre 2019 ci furono scontri brutali, la polizia accerchiò per due settimane il campus occupato, arrestando chiunque cercasse di uscire o di portare scorte agli studenti. Oggi non ci sono tracce di quelle violenze, ma gli invitati alla cerimonia d’apertura si sono alzati in piedi per cantare in coro l’inno nazionale cinese. Dietro i funzionari c’erano pochi studenti, anche loro con la mascherina rossa. Nel discorso ufficiale pronunciato al politecnico, il capo dell’esecutivo di Hong Kong John Lee ha detto che “le università locali hanno la responsabilità di coltivare una nuova generazione di patrioti in grado di proteggere la sicurezza nazionale”. Tutte e otto le università di Hong Kong hanno introdotto un nuovo corso obbligatorio dedicato alla legge sulla sicurezza nazionale e al patriottismo. Non sarà possibile laurearsi senza averlo superato.

Camminando nei campus si ha l’impressione che siano un po’ più vuoti, un po’ più spenti. E non è solo per le misure contro la pandemia: secondo il quotidiano Ming Pao l’esodo della popolazione di Hong Kong, provocato dalle misure prese dal governo dopo le proteste, è più evidente proprio tra i giovani. Il 23,4 per cento delle persone tra i venti e i 24 anni ha lasciato la regione.

Ma il problema non riguarda solo le università. Tutti gli insegnanti di Hong Kong devono “instillare il patriottismo” negli studenti, e a questo scopo sono stati distribuiti materiali per spiegare i princìpi alla base della legge sulla sicurezza nazionale e del discorso pronunciato il 1 luglio a Hong Kong dal presidente cinese Xi Jinping per celebrare il 25° anniversario del passaggio di sovranità dal Regno Unito alla Cina. I materiali sono destinati a tutti i giovani: dall’asilo alle università.

Questo tentativo di rimodellare un’intera popolazione ha echi davvero lontani: dopo le manifestazioni del 1989 a piazza Tiananmen, che si conclusero con la sanguinosa repressione del 4 giugno, l’impegno del governo cinese per infondere patriottismo e obbedienza negli studenti e nei cittadini si fece capillare. Mentre le strade del centro erano ancora dissestate dopo il passaggio dei carri armati, e molti edifici mostravano i buchi delle pallottole sparate contro la popolazione, le carceri erano piene di manifestanti. Vennero lanciate diverse campagne per chiudere giornali e riviste non allineati e gli studenti del primo anno dell’università di Pechino dovettero rimandare gli studi per fare un anno di servizio militare. Finora avevo sempre rifiutato il parallelo tra le rivolte di Hong Kong e quelle di piazza Tiananmen, ma la situazione attuale ha troppe similitudini.

L’università di Pechino nel 1989 era vuota e silenziosa e le code in mensa erano rapide. Il primo giorno dell’anno accademico successivo chiesi a un mio compagno di università se gli studenti del primo anno erano finalmente arrivati. Lui mi rispose di sì: “Li riconosci lontano un miglio, hanno ancora i capelli tagliati come nell’esercito, e stanno dritti come lampioni. Magari gli passa”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1478 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati