Le cinquanta frustate che aveva ricevuto pubblicamente il 9 gennaio 2015 davanti a una moschea di Jeddah avevano sconvolto l’opinione pubblica mondiale. Simbolo della libertà d’espressione, il blogger e attivista saudita Raif Badawi è stato scarcerato l’11 marzo, dopo aver scontato una condanna a dieci anni. Avrebbe dovuto essere rilasciato il 28 febbraio, per questo da due settimane la sua famiglia era preoccupata. Nonostante la scarcerazione, Badawi non potrà lasciare il regno per altri dieci anni e quindi neanche raggiungere la moglie e i tre figli, che vivono in Canada. Inoltre deve pagare una multa di 335mila dollari e non può usare i social network.

Tutt’altro che isolato, il caso di Raif Badawi è “esemplare della repressione subita da chiunque eserciti il diritto alla libertà d’espressione”, sottolinea Inès Osman, avvocata per i diritti umani e direttrice dell’organizzazione Mena rights. “Dimostra che questo clima di repressione non è nuovo, ma esiste da anni”. Anche se la politica verso i dissidenti si è inasprita dopo la nomina di Mohammed bin Salman a principe ereditario nel giugno del 2017, già prima i prigionieri di coscienza riempivano le carceri.

Raif Badawi, che oggi ha 38 anni, è stato arrestato nel 2012. Allora non era una figura molto nota. Scriveva il blog Free Saudi liberals, dove pubblicava contenuti in favore della laicità, scontrandosi con l’austera interpretazione dell’islam fatta dalle autorità religiose. Alla fine del 2014 è stato condannato a dieci anni di carcere e cinquanta frustate alla settimana per venti settimane, in particolare per aver chiesto la fine dell’influenza della religione sulla vita pubblica. “Il suo caso riflette un trattamento, comune in Arabia Saudita, estremamente duro nei confronti dei difensori dei diritti civili e dei diritti umani”, osserva Khalid Ibrahim, direttore del Gulf centre for human rights. Di fronte al clamore internazionale provocato dalla prima sessione di frustate ricevute da Badawi, le successive erano state rinviate, fino a quando nel 2020 l’Arabia Saudita ha abolito questa pena.

Nessuna speranza

Mentre il regno cerca di migliorare la sua immagine avviando riforme sociali ed economiche, la scarcerazione di Badawi sarebbe avvenuta “a causa delle pressioni internazionali e per coprire la campagna di esecuzioni avvenuta in questi giorni”, continua Ibrahim. Il 12 marzo il governo ha ordinato l’uccisione di 81 uomini nella più grande esecuzione di massa del regno da decenni. Tra loro c’erano 73 sauditi, sette yemeniti e un siriano, “ritenuti colpevoli di aver commesso crimini efferati”, ha riferito la Spa, l’agenzia di stampa ufficiale del regno. “Questo dimostra che gli sforzi per ‘modernizzare’ il paese, incluso il sistema penale, e rispettare i diritti umani sono solo un impegno di facciata”, accusa Osman.

Le autorità sostengono che tra le persone uccise c’erano sostenitori del gruppo Stato islamico, di Al Qaeda o dei ribelli huthi dello Yemen, ma per le organizzazioni per i diritti umani si trattava anche di semplici dissidenti, tra cui esponenti della comunità sciita, che nel regno è discriminata. Il 13 marzo i mezzi d’informazione iraniani hanno riferito che Teheran, sostenitrice degli huthi, ha sospeso i negoziati segreti avviati con Riyadh grazie alla mediazione dell’Iraq. Inoltre, le esecuzioni potrebbero mettere in imbarazzo Joe Biden. Il presidente statunitense aveva deciso di rivedere le relazioni con Riyadh a causa delle violazioni dei diritti umani, ma ultimamente stava cercando un riavvicinamento per compensare la perdita di greggio russo dovuta alle sanzioni contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina.

Le persone vicine a Raif Badawi sperano che possa essere graziato. “Non riponiamo molte speranze nel governo saudita”, si rammarica però Ibrahim. “Alle persone scarcerate – Raif Badawi, Samar Badawi (sua sorella), Nassima al Sadah, Loujain al Hathloul, Adam Koshak e altri prigionieri di coscienza – sono negati i diritti fondamentali, come viaggiare all’estero, ottenere un impiego pubblico, essere liberi di parlare ai mezzi d’informazione o di scrivere sui social network, e rimangono sotto stretta sorveglianza”. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1452 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati