Questo articolo è stato pubblicato il 5 ottobre 2018 nel numero 1276 di Internazionale.

Mary Wollstonecraft God­win Shelley cominciò a scrivere Frankenstein o il moderno Prometeo a diciott’anni, due anni dopo essere rimasta incinta della prima figlia, una bambina che non chiamava mai per nome. “Allatto la bambina, leggo”, aveva scritto giorno dopo giorno nel suo diario, fino all’undicesimo giorno: “Mi sono svegliata stanotte per allattare, mentre dormiva sembrava così tranquilla che non ho voluto svegliarla”. Poi, al mattino: “Trovo la mia bambina morta”. Insieme al dolore per la perdita venne la paura della “febbre da latte”. Aveva i seni gonfi e infiammati. Anche il suo sonno diventò febbricitante. “Sogno che la mia bambina torna in vita, che ha solo preso freddo, la frizioniamo vicino al fuoco ed è di nuovo viva”, scriveva nel diario. “Mi sveglio e non trovo nessuna bambina”.

Di nuovo incinta appena qualche settimana dopo, probabilmente stava ancora allattando il secondo figlio quando cominciò a scrivere Frankenstein, ed era nuovamente incinta quando finì il libro. Non lo firmò con il suo nome (pubblicò Frankenstein anonimamente nel 1818, anche per paura di perdere la custodia dei figli), come non diede un nome al suo mostro. “Questo anonimo androdemone”, lo chiamò un critico. La prima rappresentazione teatrale fu allestita a Londra nel 1823. All’epoca aveva partorito quattro figli, ne aveva seppelliti tre e aveva perso un altro bambino in seguito a un aborto spontaneo che l’avrebbe uccisa se il marito non l’avesse fatta sedere sul ghiaccio per fermare l’emorragia.

Sul cartellone teatrale il mostro era indicato come “---”. “Questo modo anonimo di nominare l’innominabile è piuttosto convincente”, osservò Mary Shelley. La stessa autrice non aveva un nome suo. Come la creatura composta con i cadaveri raccolti da Victor Frankenstein, il suo nome era un’unione di diversi elementi: il nome della madre, la femminista Mary Wollstonecraft, attaccato al cognome del padre, il filosofo William God­win, e a quello del marito, il poeta Percy Bysshe Shelley, come se Mary Wollstonecraft God­win Shelley fosse la somma delle sue relazioni, ossa delle loro ossa e carne della loro carne. Però non latte del latte materno, dato che sua madre era morta undici giorni dopo averla data alla luce, troppo malata per allattarla. Mi sveglio e non trovo nessuna madre.

“Fu in una lugubre notte di novembre che vidi la realizzazione delle mie fatiche”, dice Victor Frankenstein, uno studente universitario, raccontando la sua storia. La pioggia picchietta contro il vetro della finestra, una candela morente vacilla cupamente. Victor Frankenstein vede “la cosa inanimata” ai suoi piedi prendere vita: “Vidi l’occhio giallo, fermo, della creatura aprirsi; respirava a fatica, e un moto convulso agitava le sue membra”. Dopo aver tanto lavorato per infondere la vita in quella creatura, scopre di provare disgusto e orrore – “incapace di sopportare la vista dell’essere che avevo creato” – e scappa, abbandonando la sua creazione senza darle un nome. “Io, il miserabile e derelitto, sono un aborto”, dice la creatura prima di sparire, nella scena finale del libro, su una zattera di ghiaccio.

Ogni libro è un bambino che nasce, ma Frankenstein è spesso considerato un’opera assemblata più che scritta, un parto innaturale

Frankenstein racchiude quattro storie in una: un’allegoria, una favola, un romanzo epistolare e un’autobiografia. È un tale caos di fertilità letteraria che la giovanissima autrice faticò a spiegare quella sua “spaventosa progenie”. Nell’introduzione che scrisse per l’edizione riveduta del 1831, affrontò una domanda umiliante: “Come giunsi io, allora fanciulla, a concepire e a sviluppare una storia così spaventosa?”. Inventò una spiegazione in cui di fatto si cancellava come autrice, assicurando che la storia le era apparsa in sogno (“Vedevo – a occhi chiusi ma con la mente ben desta – lo studioso di una scienza sacrilega, pallido, inginocchiato accanto alla cosa che aveva messo insieme”) e che per scriverla si era solo limitata “a trascrivere” quel sogno. Un secolo dopo, nella splendida versione cinematografica di Frankenstein diretta da James Whale e prodotta dalla Universal, Boris Karloff avrebbe interpretato la creatura barcollando e grugnendo: il mostro, che nel romanzo è straor­dinariamente eloquente e colto, nel film non solo è senza nome ma anche senza parola, come se ciò che Mary Wollstonecraft God­win Shelley aveva da dire fosse stato troppo radicale, un’irriferibile sofferenza.

Ogni libro è un bambino che nasce, ma Frankenstein è spesso considerato un’opera assemblata più che scritta, un parto innaturale, quasi l’autrice si fosse limitata a mettere insieme gli scritti di altre persone, in particolare quelli del padre e del marito. “Se la figlia di God­win non poteva fare a meno di filosofeggiare”, osservava un critico della metà del novecento, “la moglie di Shelley conosceva bene lo strano fascino di ciò che è morboso, occulto e scientificamente bizzarro”. Questa radicata condiscendenza, questa concezione dell’autrice come veicolo d’idee altrui (una messinscena alla quale avrebbe partecipato per evitare lo scandalo di esibire la propria intelligenza) spiega in parte la miriade di letture e trasposizioni diversissime che Frankenstein ha ispirato negli ultimi due secoli. In occasione del bicentenario sono uscite due edizioni della versione originale del 1818: un’edizione economica pubblicata da Penguin Classics (un volumetto molto curato, con un’introduzione dell’eminente biografa Charlotte Gordon) e un’edizione con la copertina rigida, meravigliosamente illustrata, a cura di Leslie S. Klinger (The new annotated Frankenstein, Liveright). La Universal ha in cantiere una nuova versione di La moglie di Frankenstein, parte di una serie di remake del suo archivio di film dell’orrore. Il cinema riassume la politica e i suoi imbrogli: l’epoca dei supereroi sta per cedere il posto all’epoca dei mostri. Ma che fine ha fatto il bambino?

Da duecento anni Frankenstein, la storia di una creatura senza nome, ispira le interpretazioni più disparate. Di recente è stato presentato come un racconto ammonitore per gli esperti di tecnologia della Silicon valley. Questa lettura è legata più alle trasposizioni teatrali e cinematografiche (in particolare al film del 1931) che non al romanzo del 1818, e ha preso forma soprattutto dopo Hiroshima. Con questo spirito l’Mit Press ha da poco pubblicato un’edizione del testo originale “commentata per gli scienziati, gli ingegneri e i creatori di ogni genere”, a cura dei responsabili del Frankenstein bicentennial project dell’Arizona state university e finanziata dalla National science foundation. Il libro è proposto come un catechismo per i creatori di robot e gli inventori d’intelligenze artificiali. “Il rimorso distruggeva ogni speranza”, dice Victor nel primo capitolo del secondo volume, quando la creatura ha cominciato a uccidere tutti i suoi cari. “Io ero stato l’autore di mali irreparabili, e vivevo nel quotidiano timore che il mostro che avevo creato commettesse qualche nuova malvagità”. Nell’edizione dell’Mit una nota a piè di pagina spiega: “Il rimorso espresso da Victor ricorda i sentimenti di J. Robert Oppenheimer di fronte all’indescrivibile potenza della bomba atomica. Il senso di responsabilità degli scienziati deve intervenire prima che le loro creazioni siano messe in circolazione”.

È un modo come un altro di utilizzare il romanzo, ma significa svuotarlo di tutto ciò che ha a che fare con il sesso e la nascita, di tutta la sua componente femminile, aspetti che Muriel Spark, per prima, mise in luce in una biografia di Mary Shelley pubblicata nel 1951, cent’anni dopo la sua morte. Spark aveva studiato attentamente i suoi diari e dava molta importanza agli otto anni in cui l’autrice era stata quasi sempre incinta o in lutto. Secondo lei, Frankenstein non era un esempio minore di narrativa di genere, ma un’opera letteraria di straordinaria originalità. Negli anni settanta la sua interpretazione fu ripresa dalla critica letteraria femminista, per la quale Frankenstein aveva gettato le basi della fantascienza attraverso il “gotico femminile”. Secondo Ellen Moers, Mary Shelley aveva prodotto un’opera originale perché, oltre a essere scrittrice, era anche madre. Tolstoj aveva tredici figli, tutti nati in casa, ma le più grandi scrittrici del settecento e dell’ottocento (le Jane Austen e le Emily Dickinson) di solito erano “zitelle e vergini”, per dirla con Moers. Shelley era un’eccezione.

Franco Matticchio

Lo era anche Mary Wollstonecraft, una donna che Shelley conobbe non come madre ma come autrice, tra le altre cose, di testi sull’educazione dei figli. “Considero un dovere di ogni creatura razionale accudire la propria prole”, scriveva Wollstonecraft in Pensieri sull’educazione delle figlie nel 1787, dieci anni prima di mettere al mondo l’autrice di Frankenstein. Come racconta Charlotte Gordon nella sua doppia biografia Romantic outlaws, il primo incontro tra Wollstonecraft e William God­win, due radicali, avvenne nel 1791 a Londra, a una cena organizzata dall’editore dei Diritti dell’uomo di Thomas Paine. Wollstonecraft e God­win “si riuscirono a vicenda sgradevoli”, scrisse Godwin in seguito. Erano i due invitati più brillanti e non poterono fare a meno di discutere tutta la sera. Nel 1792 uscì Rivendicazione dei diritti della donna di Wollstonecraft e, l’anno seguente, God­win pubblicò Giustizia politica. Nel 1793, durante una relazione con lo speculatore e diplomatico statunitense Gilbert Imlay, Wollstonecraft rimase incinta (“Sto nutrendo una creatura”, gli scrisse). Imlay la lasciò poco dopo la nascita della bambina, che Wollstonecraft chiamò Fanny. God­win e Wollstonecraft diventarono amanti nel 1796, e quando lei rimase nuovamente incinta si sposarono per il bene della figlia, anche se nessuno dei due credeva nel matrimonio. Nel 1797 Wollstonecraft morì a causa di un’infezione contratta dalle dita di un medico che le aveva rimosso la placenta dall’utero. God­win diede alla figlia il nome della moglie morta, come se avesse potuto riportarla in vita.

Mary Wollstonecraft God­win aveva quindici anni quando, nel 1812, incontrò Percy Bysshe Shelley. Lui ne aveva venti, era sposato e sua moglie era incinta. Dopo essere stato cacciato da Oxford a causa del suo ateismo e ripudiato dal padre, Shelley aveva cercato in William God­win, il suo eroe intellettuale, una figura paterna. Durante il loro corteggiamento clandestino, romantico in senso letterale e letterario, Shelley e la giovane God­win andavano sulla tomba di Wollstonecraft al cimitero di St Pancras e leggevano con trasporto le opere dei loro genitori. “Vado sulla tomba e leggo”, scriveva lei nel suo diario. “Vado con Shelley al cimitero”. Evidentemente non si limitavano a leggere, perché Mary God­win era già incinta quando fuggì con il poeta, abbandonando la casa paterna nell’oscurità della notte insieme alla sorella acquisita di Mary, Claire Clairmont, che come lei desiderava la perdizione.

Se qualcuno ispirò il personaggio di Victor Frankenstein, fu lord Byron, un uomo che seguì la sua immaginazione, si abbandonò alle passioni e non si occupò mai dei figli. Era “pazzo, cattivo e pericoloso”, come disse una delle sue amanti, soprattutto per via delle sue numerose relazioni, tra cui quella con la sorellastra Augusta Leigh. Byron si sposò nel gennaio del 1815 e sua figlia Ada nacque a dicembre. Ma un anno dopo il matrimonio la moglie lo lasciò, minacciando di rivelare la sua scandalosa relazione con Leigh se mai avesse provato a rivedere lei o Ada. Quest’ultima aveva più o meno l’età che avrebbe avuto la prima figlia di Mary se fosse vissuta. La madre di Ada, temendo che la figlia diventasse una poeta, pazza e cattiva come il padre, la spinse a diventare una matematica. Ada Lovelace, una scienziata geniale quanto Victor Frankenstein, nel 1843 fece un’importante descrizione teorica di un computer per uso generale, un secolo prima che venisse costruito.

Alla ricerca di Frankenstein
Per il suo nuovo progetto, la fotografa britannica Chloe Dewe Mathews è andata nei luoghi dove è nato il romanzo di Mary Shelley.

Nella primavera del 1816 Byron, in fuga dallo scandalo, lasciò l’Inghilterra per Ginevra, dove lo raggiunsero Percy Shelley, Mary God­win e Claire Clairmont. I moralisti li ribattezzarono “la lega dell’incesto”. Quando arrivò l’estate Clairmont era incinta di Byron. Una sera Byron, che si annoiava, annunciò: “Ciascuno di noi scriverà una storia di fantasmi”. Mary God­win cominciò quello che sarebbe diventato Frankenstein. “Mi pare un libro meraviglioso”, avrebbe scritto in seguito Byron “per una ragazza di diciannove anni, anzi a quel tempo non ancora diciannovenne”.

Nei mesi in cui God­win trasformava la sua storia di fantasmi in un romanzo e nutriva un altro bambino in grembo, la moglie di Shelley, incinta di quello che sarebbe stato il loro terzo figlio, si uccise. Nello stesso periodo Clairmont diede alla luce una bambina (il cui padre era Byron, anche se molti erano convinti che fosse Shelley) e Percy Shelley e Mary God­win si sposarono. I due provarono ad adottare la bambina di Clairmont, ma alla fine Byron la prese con sé, dopo aver constatato che quasi tutti i figli di God­win e Shelley erano morti. “Sono contrario al modo in cui trattano i figli in quella famiglia, sarebbe come se la bambina finisse in ospedale”, scriveva, crudelmente, a proposito degli Shelley. “Ne hanno mai cresciuto uno?”. Non che a Byron interessasse molto crescere un figlio: piazzò la bambina in un convento, dove morì all’età di cinque anni.

Quando Frankenstein, cominciato nell’estate del 1816, fu pubblicato, diciotto mesi dopo, aveva una prefazione senza firma di Percy Shelley e una dedica a William God­win. Il libro fece immediatamente scalpore. “Sembra essere universalmente noto e letto”, scrisse un amico a Percy Shelley. “L’autore”, osservò sir Walter Scott in una delle prime recensioni, “ci sembra esibire un’immaginazione poetica di rara potenza”. Come molti lettori, Scott supponeva che l’autore fosse Percy Shelley. I critici meno sensibili al fascino del poeta romantico condannarono il radicalismo god­winiano del libro e la sua byroniana empietà. John Croker, un parlamentare conservatore, definì Frankenstein un “intreccio di orribile e ripugnante assurdità”, radicale, dissennato e immorale.

Ma il messaggio politico di Frankenstein è complesso quanto la sua struttura narrativa, simile a una matrioska. La bambola esterna è un insieme di lettere inviate da un avventuriero inglese alla sorella, in cui racconta la sua spedizione nell’Artico e l’incontro con l’eccentrico, emaciato Victor Frankenstein. Dentro questa cornice, Frankenstein racconta la storia del fatidico esperimento, che lo ha spinto a inseguire la sua creatura in capo al mondo. E dentro la storia di Frankenstein è racchiusa la testimonianza della creatura, la bambola russa più piccola, il suo cuore: il bambino. La struttura del romanzo spiega perché gli avversari del radicalismo politico siano spesso stati spiazzati e confusi da Frankenstein, come hanno sottolineato i critici Chris Baldick e Adriana Craciun. Il romanzo può sembrare eretico e rivoluzionario, ma può anche sembrare controrivoluzionario. Dipende da quale bambola sta parlando.

Franco Matticchio

Se Frankenstein, come sostengono alcuni critici, è un referendum sulla rivoluzione francese, allora la posizione di Victor Frankenstein è vicina a quella di Edmund Burke, secondo il quale le rivoluzioni violente erano “una specie di mostro politico, che ha sempre finito col divorare coloro che lo hanno prodotto”. Il mostro, invece, è schierato nel campo di due tra i più accesi avversari di Burke, Mary Wollstonecraft e William God­win. Victor Frankenstein si è servito dei corpi di altre persone come un signore dispone dei suoi contadini o un re dei suoi sudditi, un comportamento che God­win denunciava definendo il feudalesimo un “mostro feroce” (“Come osi giocare così con la vita?”, chiede la creatura al suo creatore). La creatura, nata innocente, è trattata così crudelmente da diventare cattiva, proprio come prediceva Wollstonecraft. “La miseria rende le persone feroci”, scriveva, “e la misantropia è sempre frutto del malcontento” (“Fammi felice”, supplica invano la creatura, rivolgendosi a Frankenstein).

Mary Shelley s’impegnò affinché i lettori simpatizzassero non solo con Frankenstein, la cui sofferenza è atroce, ma anche con la creatura, che soffre ancora di più. L’ingegnosità del libro sta nella sua capacità di guidare la simpatia dei lettori, facendola passare – da pagina a pagina, da paragrafo a paragrafo, perfino da riga a riga – da Frankenstein alla creatura, anche quando quest’ultima commette i suoi feroci delitti, uccidendo prima il fratellino di Frankenstein, poi il suo migliore amico e infine la moglie. “La giustizia è senza alcun dubbio dalla sua parte”, scriveva un critico nel 1824, “e le sue sofferenze mi commuovono al massimo grado”. L’autrice è chiaramente riuscita nel suo intento.

“Ascoltate la mia storia”, insiste la creatura, quando finalmente affronta il suo creatore. Quella che segue è l’autobiografia di un bambino appena nato. Al suo risveglio, tutto è confusione. “Ero un povero, indifeso, miserabile disgraziato; non sapevo e non potevo discernere nulla”. È infreddolito, nudo, affamato e privo di compagnia, eppure, non avendo linguaggio, non può dare un nome a queste sensazioni. “Ma un sentimento di dolore m’invase da tutte le parti, mi sedetti e piansi”. La creatura impara a camminare e comincia a vagare, sempre incapace di esprimersi (“i suoni sgraziati e inarticolati che mi uscivano mi spaventavano al punto da indurmi al silenzio”). A un certo punto trova riparo in una baracca addossata a una casetta ai margini di un bosco. Lì, ascoltando parlare gli abitanti della casetta, scoprì l’esistenza del linguaggio. “Scoprii i nomi che venivano dati ad alcuni degli oggetti del discorso più familiari; imparai e applicai le parole ‘fuoco’, ‘latte’, ‘pane’ e ‘legna’”. Vedendo gli abitanti leggere un libro, Le rovine, ossia, Meditazioni sulle rivoluzioni degli imperi del conte di Volney, un rivoluzionario francese del settecento, impara a leggere. Acquisisce così “una conoscenza generale della storia”, una litania d’ingiustizie: “Sentii della divisione della proprietà, d’immensa ricchezza e squallida povertà; di rango, lignaggio e sangue nobile”. Scopre che ovunque i potenti abusano dei deboli e i poveri sono disprezzati.

Una delle tante ambiguità morali e politiche del romanzo di Mary Shelley riguarda la responsabilità di Frankenstein

Mary Shelley teneva un registro di tutti i libri che leggeva e traduceva, annotando titolo dopo titolo e compilando una lista ogni anno: Milton, Goethe, Rousseau, Ovidio, Spenser, Coleridge, Gibbon e centinaia d’altri, che spaziavano dalla storia alla chimica. “Il piccolo non sta bene”, appuntò nel suo diario mentre scriveva Frankenstein. “Scrivo, disegno e cammino. Leggo Locke”. E un altro giorno: “Cammino, scrivo. Leggo i Diritti delle donne”. Anche la creatura tiene un registro delle sue letture e, com’era prevedibile, legge i libri che Shelley leggeva e rileggeva più spesso. Un giorno, errando nei boschi, la creatura s’imbatte in un bauletto di cuoio che contiene tre libri: il Paradiso perduto di Milton, le Vite di Plutarco e I dolori del giovane Werther di Goethe. Questi testi, insieme alle Rovine di Volney, determineranno la sua filosofia politica, come capirono subito i critici dell’epoca. “Il suo codice etico si fonda su questo straordinario bagaglio di teologia politica, biografia pagana, sentimentalismo adulterino e giacobinismo ateo”, si legge nella recensione più diffusa negli Stati Uniti, “eppure, malgrado i suoi terribili delitti, il mostro ci appare vessato e degno di compassione”.
Sir Walter Scott lo considerava l’aspetto più assurdo del romanzo: “Che abbia imparato non solo a parlare, ma a leggere e, per quel che ne sappiamo, a scrivere, che si sia familiarizzato con Werther, le Vite di Plutarco e il Paradiso perduto, tutto questo ascoltando attraverso un buco in un muro, è inverosimile, proprio come se allo stesso modo avesse imparato i teoremi di Euclide o la contabilità a partita semplice o doppia”. Ma il racconto che la creatura fa della propria educazione segue da vicino le convenzioni di un genere di scrittura molto distante da quella di Scott: i racconti di schiavi.

Frederick Douglass, nato schiavo nell’anno della pubblicazione di Frankenstein, segue quelle stesse convenzioni quando, nella sua autobiografia, descrive come imparò à leggere barattando lezioni con dei ragazzi bianchi. Douglass prese coscienza della sua condizione politica quando aveva dodici anni, leggendo il “Dialogo tra un padrone e uno schiavo”. Era parte dell’antologia Columbian orator, un libro che Douglass pagò cinquanta centesimi, uno dei pochi oggetti che portò con sé quando fuggì. Quella lettura segnò il suo passaggio all’età adulta. “Più leggevo e più ero spinto a odiare e detestare coloro che mi rendevano schiavo”, scrive, una frase che avrebbe potuto pronunciare la creatura.

Allo stesso modo, per quest’ultima il passaggio all’età adulta avviene con il ritrovamento del taccuino di Victor Frankenstein. Leggendo il resoconto dell’esperimento, scopre come è stata creata e quanto ingiustamente è stata trattata. Ed è a quel punto che il racconto della creatura, da autobiografia di un bambino, si trasforma in autobiografia di uno schiavo. “A volte avevo l’impressione che imparare a leggere fosse stata una maledizione più che una benedizione”, scriveva Douglass. “Mi aveva permesso di vedere la mia orribile condizione senza offrirmi un rimedio”. Parole simili a quelle della creatura: “L’accrescersi della mia conoscenza mi rivelò solo ancora più chiaramente che miserabile reietto io fossi”. Douglass: “Spesso soffrivo per il solo fatto di esistere, e avrei voluto essere morto”. La creatura: “Maledetto, maledetto creatore! Perché vivevo?”. Douglass aspira alla fuga. La creatura cerca vendetta.

Una delle tante ambiguità morali e politiche del romanzo di Mary Shelley riguarda la responsabilità di Frankenstein: dev’essere biasimato perché ha creato il mostro, usurpando il potere di dio e delle donne, o perché non l’ha amato, accudito ed educato come avrebbe dovuto? Secondo la chiave di lettura “Frankenstein è Oppenheimer”, la sua colpa è averlo creato, ma è un’interpretazione debole. Come hanno sottolineato molti critici, il romanzo è in gran parte un contributo al dibattito sull’abolizione della schiavitù, e la rivoluzione su cui è incentrato non è quella francese ma quella haitiana. Per gli abolizionisti britannici, la rivoluzione haitiana (così come le continue rivolte di schiavi in Giamaica e nelle altre isole produttrici di canna da zucchero delle Indie occidentali) sollevava la questione della libertà e dell’uguaglianza in modo molto più duro e radicale di quanto avesse fatto la rivoluzione francese, perché implicava un’analisi dell’idea di differenza razziale. God­win e Wollstonecraft erano stati abolizionisti, come lo erano Percy e Mary Shelley che, per esempio, non mangiavano zucchero per via di com’era prodotto. Anche se nel 1807 il Regno Unito e gli Stati Uniti avevano abolito l’importazione di schiavi, il dibattito sulla schiavitù nei territori britannici proseguì fino all’emancipazione, approvata nel 1833. Gli Shelley seguirono con attenzione il dibattito, leggendo insieme numerosi libri sull’Africa e sulle Indie occidentali prima e durante la stesura di Frankenstein. Percy Shelley faceva parte degli abolizionisti che insistevano sull’importanza di una liberazione graduale. Temeva che gli schiavi, privati d’istruzione, vittime di un’oppressione così lunga e violenta, avrebbero cercato vendetta se liberati in modo incondizionato. “Come può chi ancora ieri era uno schiavo vessato”, si chiedeva, “diventare all’improvviso una persona aperta, paziente e indipendente?”.

Avendo letto numerosi libri che sottolineavano le caratteristiche fisiche degli africani, Mary Shelley fa una descrizione esplicitamente razziale della creatura, contrapponendo il suo aspetto africano a quello di un europeo. “Io ero più agile di loro, e potevo sopravvivere con una dieta più rozza”, dice la creatura. “Sopportavo gli estremi del caldo e del freddo con meno danni per il mio corpo; la mia statura superava di molto la loro”. A teatro questa caratterizzazione diventò caricaturale. Già nell’allestimento del 1823 l’attore che interpretava “---” aveva il viso dipinto di blu, che evocava non tanto un morto quanto un nero. Nel 1824, durante un dibattito parlamentare sull’emancipazione, l’abolizionista George Canning, all’epoca ministro degli esteri e presidente della camera dei comuni, fece un accostamento significativo tra il ritratto “infantile” della creatura e la raffigurazione, tipica della cultura dell’epoca, degli africani come bambini. “Quando ci occupiamo del negro, signori, dobbiamo ricordare che abbiamo a che fare con un essere che ha la forma e la forza di un uomo, ma l’intelletto di un bambino”, disse Canning. “Liberarlo quando si trova nella virile pienezza della sua forza fisica, nella maturità delle sue passioni fisiche, ma nell’infanzia della sua ragione non ancora istruita vorrebbe dire far sorgere una creatura simile alla splendida invenzione di un recente romanzo fantastico”. Negli allestimenti della fine dell’ottocento la creatura indossava abiti chiaramente africani. Perfino il film diretto da James Whale nel 1931, in cui Boris Karloff aveva il viso dipinto di verde, rafforza questo ritratto della creatura come africana: nella scena più forte del film, il personaggio subisce un linciaggio.

Come ha sottolineato la critica Elizabeth Young in Black Frankenstein: the making of an American metaphor, Frankenstein è un’opera unica nella cultura degli Stati Uniti proprio perché la creatura è una metafora dello schiavo. “A cosa serve vivere se, di fatto, sono morto”, chiedeva da Boston l’abolizionista nero David Walker, nel suo Appello ai cittadini di colore del mondo del 1829, anticipando di un secolo e mezzo Anima in ghiaccio di Eld­ridge Cleaver. “La schiavitù è il mostro domestico del popolo americano”, dichiarò Frederick Douglass a New York, poco prima che scoppiasse la guerra civile americana. Negli anni cinquanta dell’ottocento, il mostro di Frankenstein appariva regolarmente nelle vignette politiche nordamericane, raffigurato come un uomo nero seminudo, metafora della schiavitù decisa a vendicarsi della nazione che l’aveva creata.

Mary Wollstonecraft God­win Shelley era ormai morta, e le sue complesse origini dimenticate. Quasi tutte le persone che amava erano morte prima di lei, molte quando era ancora giovanissima. La sorellastra, Fanny Imlay, si era tolta la vita nel 1816. Percy Shelley era annegato nel 1822. Lord Byron si era ammalato ed era morto in Grecia nel 1824, facendo di Mary Wollstonecraft God­win Shelley, come scriveva lei stessa, “l’ultimo vestigio di un’amata stirpe, i miei compagni essendo scomparsi prima di me”.

È il tema del romanzo che scrisse otto anni dopo Frankenstein. Pubblicato nel 1826, quando Mary Shelley aveva ventotto anni, L’ultimo uomo è ambientato nel ventunesimo secolo, dove un solo uomo resiste, unico sopravvissuto a una terribile pestilenza, non essendo riuscito, malgrado tutta la sua immaginazione e le sue conoscenze, a salvare la vita di una sola persona. Allatto la bambina, leggo. Trovo la mia bambina morta.

Questo articolo è stato pubblicato il 5 ottobre 2018 nel numero 1276 di Internazionale.

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