12 aprile 2017 10:15

Dimenticate tutto quello che avete letto su Donald Trump negli ultimi sei mesi circa: sarà bastato lanciare dei missili Tomahawk su una base siriana perché, per riprendere l’espressione dell’analista della Cnn Fareed Zakaria, Donald Trump diventi davvero il presidente degli Stati Uniti.

Bisogna dire che durante la campagna elettorale del 2016, e dopo la sua sorprendente elezione l’8 novembre, Donald Trump si è fatto forte del suo slogan “America first”, dando la sensazione, al resto del mondo, che le sue intemperanze avessero poche conseguenze concrete.

In Asia, in Medio Oriente e in Europa, gli alleati degli Stati Uniti si preparavano a un mondo senza il gendarme americano. Un mondo al quale, in larga parte, avevano cominciato ad abituarsi dopo gli otto anni al potere di Barack Obama.

Una svolta senza dottrina
L’episodio delle armi chimiche di Bashar al Assad nel 2013 e la rinuncia di Obama a “punire” il superamento di questa “linea rossa” che aveva lui stesso fissato è nella memoria di tutti. E Donald Trump, all’epoca, aveva scritto molti tweet nei quali incoraggiava il presidente dell’epoca a non bombardare la Siria.

Il bombardamento, all’alba del 4 aprile, della base di Shayrat, dalla quale sarebbero partiti gli aerei che hanno attaccato con armi chimiche un villaggio siriano controllato dai ribelli, rappresenta chiaramente una svolta drastica rispetto a tutto quanto era stato detto, e twittato, fino a quel momento dal presidente degli Stati Uniti.

Eppure la dottrina alla base di questa svolta resta ancora tutta da capire, anche quando i responsabili dell’amministrazione cercano di spiegarla, come ha fatto il 9 aprile, sul canale Abc, il segretario di stato Rex Tillerson: “Il messaggio che tutte le nazioni devono ricevere è questo: ‘Se violate le norme internazionali, se violate gli accordi internazionali, se non rispettate i vostri impegni, costituite una minaccia per gli altri e dovete aspettarvi una reazione’”.

Il messaggio di Tillerson è rivolto innanzitutto alla Corea del Nord, l’altra zona calda del mondo in questo inizio di mandato Trump, il quale non intende lasciare che il dittatore Kim Jong-un sviluppi il missile balistico che gli permetterebbe di minacciare il territorio degli Stati Uniti con delle testate nucleari.

Siamo tornati, senza dirlo, al buon vecchio ruolo di “gendarme” su tutti i continenti e tutti i mari?

Washington ha già minacciato di agire da sola se Pechino, vicino e protettore della Corea del Nord, non riporterà Kim Jong-un alla “ragione”, spingendolo cioè a mettere fine ai suoi sforzi nucleari e balistici. Una portaerei statunitense e la sua flottiglia sono peraltro in marcia verso la penisola coreana, come se il vertice sinoamericano di Mar-a-Lago non avesse permesso passi avanti su questo dossier.

E quindi qual è la “dottrina Trump” sulla sicurezza? Siamo tornati, senza dirlo, al buon vecchio ruolo di “gendarme” su tutti i continenti e tutti i mari che era diventato la norma fino a Barack Obama, nel bene e nel male?

Lo stesso Trump ha semmai dato l’impressione, nel primo intervento pubblico nel quale ha annunciato gli attacchi in Siria, di aver agito più sull’onda dell’emozione, dopo aver visto (sicuramente su Fox News) le immagini dei bambini vittime del bombardamento chimico, che non sulla base di una solida politica di sicurezza.

E quindi le immagini che non l’avevano colpito nel 2013, quando c’erano state più di mille vittime, stavolta lo hanno spinto ad agire. È quello che gli storici chiamano “logica funzionale”, come mi fa notare su Twitter uno di loro, Vincent Duchaussoy, quando scrive che “la funzione conta più dell’uomo quando si prende una decisione”.

Entrano in scena gli adulti
A questo bisogna sicuramente aggiungere l’evoluzione dei rapporti di forza all’interno dell’amministrazione Trump, risultato delle aspre battaglie che hanno animato, dietro le quinte, la Casa Bianca in questi mesi di amministrazione Trump. Le prime nomine del nuovo presidente sono state molto ideologiche: Steve Bannon, ex caporedattore del sito d’estrema destra Breitbart News, come consigliere strategico e anche membro del potente Consiglio di sicurezza nazionale (Nsc), oppure il generale Michael Flynn come consigliere alla sicurezza nazionale.

Due mesi e molti intrighi di palazzo più tardi, i rapporti di forza sono cambiati. Il “generale pazzo” Flynn è uscito di scena per aver mentito sui suoi contatti con la Russia, mentre Steve Bannon, ideologo dell’apocalisse, è dovuto uscire dall’Nsc senza per questo lasciare la Casa Bianca.

Ora tocca agli “adulti” dell’amministrazione, come il giornalista del New York Times Thomas Friedman ha efficacemente ribattezzato i generali Jim Mattis, Herbert R. McMasters, John Kelly o ancora Mike Pompeo, rispettivamente segretario alla difesa, consigliere alla sicurezza nazionale, segretario alla sicurezza interna e direttore della Cia. A questi occorre aggiungere un civile, il segretario di stato Rex Tillerson, che proviene dal settore privato ed è l’ex amministratore delegato del gigante petrolifero Exxon.

La svolta bellica è anche un’opportunità per Trump di mostrare di non essere la ‘marionetta’ di Vladimir Putin

Questo “tempo dei generali”, di cui avevo già parlato, annunciava un ritorno a posizioni repubblicane più tradizionali e meno “trumpiane”.
Però serviva un segnale. L’attacco chimico in Siria ha fornito il pretesto, permettendo in 48 ore a Donald Trump di apparire come il comandante in capo, pur non essendolo veramente, dato che sono i suoi generali ad aver preso l’iniziativa.

Ma Trump non si è lasciato scappare l’occasione di mostrarsi in una veste più “presidenziale”, con una foto che ricorda, se si esclude il viso angosciato, quella di Barack Obama che segue su uno schermo di controllo lo svolgimento dell’operazione di eliminazione di Osama Bin Laden nel suo rifugio in Pakistan. La morbosa ossessione di Trump nel voler apparire migliore di Obama non è estranea a questa svolta bellica, che è anche un’opportunità, per il nuovo presidente, di mostrare di non essere la “marionetta” di Vladimir Putin.

Poco importa che la posta in gioca non sia, né militarmente né simbolicamente, così importante: il messaggio è arrivato e non c’è niente di meglio di un’azione militare per legittimare un presidente. Soprattutto quando nella sua amministrazione non c’è nient’altro che funzioni, tra giudici che respingono i decreti contro gli immigrati musulmani, sconfitte al congresso sull’Obamacare, le difficoltà a nominare persone competenti nei troppi incarichi ancora vacanti e così via.

Un certo fastidio in privato
I principali alleati degli Stati Uniti, come la Francia, la Germania, l’Arabia Saudita o la Turchia, si sono pubblicamente congratulati per questa azione anche se, in privato, non nascondono un certo fastidio. Gli Stati Uniti hanno agito da soli, senza concertazione (se si esclude una comunicazione alcuni minuti prima di passare all’azione) con nessuno, fuori da ogni quadro legale e perfino dalle coalizioni che hanno loro stessi creato.

Trump non sembra inoltre avere elaborato una vera e propria riflessione sul “dopo”, l’eterno punto di domanda degli interventi militari, a cui si devono i disastri in Irak nel 2003 e in Libia nel 2011.

È nato quindi un nuovo “gendarme”. Ma aspettiamo ancora di conoscerne la dottrina. L’impulso emotivo e i retropensieri politici non sono sufficienti in un mondo molto più complesso di quando gli Stati Uniti erano l’unica superpotenza, l’“iperpotenza” teorizzata a suo tempo dall’ex ministro degli affari esteri francese Hubert Védrine.

Nel frattempo a Washington riemergono vecchi riflessi. L’amministrazione alza la voce contro Kim Jong-un ma riceve in pompa magna il maresciallo egiziano Abdel Fatah al Sisi, legittimandone il potere e senza dire una parola sul suo disastroso bilancio in materia di diritti umani.

Ci saranno dei paesi del “male” e dei paesi “amici” sui quali faremo meno gli schizzinosi. Viene in mente la frase di Roosevelt a proposito di un dittatore latinoamericano: “Sarà pure un bastardo, ma è il nostro bastardo”. In mancanza di una dottrina, permette una facile lettura del mondo.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it