23 marzo 2018 09:50

Non è l’ultimo dei paradossi della nostra complessa epoca: gli autocrati piacciono.

Certo, Vladimir Putin ha vinto il 18 marzo delle elezioni senza rischi, escludendo il suo principale oppositore e facendo in modo che l’affluenza fosse la più alta possibile. Ma nessuno contesta la sua effettiva popolarità in una parte del paese, che gli avrebbe permesso senza dubbio di farsi eleggere senza barare.

Lo stesso potrebbe dirsi di Recep Tayyip Erdoğan, presidente di un regime sempre più autoritario in Turchia, che spedisce giornalisti e scrittori come Ahmet Altan in prigione per il resto dei loro giorni e schiaccia i curdi ad Afrin senza nessuno scrupolo. Ma anche Erdoğan conserva una notevole base di popolarità, anche se la riforma costituzionale del 2017, che ha instaurato il regime presidenziale, è stata approvata solo dal 51,3 per cento degli elettori turchi.

A questa categoria potremmo aggiungere il presidente filippino Rodrigo Duterte, eletto democraticamente sulla base di un programma che prevedeva la pena di morte per migliaia di persone sospettate di essere trafficanti di droga. Una volta eletto, ha fatto proprio questo, senza preoccuparsi delle procedure giudiziarie o di rispettare lo stato di diritto, al punto di annunciare, qualche giorno fa, il ritiro delle Filippine dal Tribunale penale internazionale, per evitare un giorno di trovarsi giudicato lui stesso.

Il paradosso è ancora più evidente in Cina, dove il Partito comunista non cerca di preservare delle apparenze democratiche che non esistono, ma dove il presidente Xi Jinping vincerebbe di sicuro in un eventuale scrutinio a suffragio universale. Xi ha preferito fare approvare al parlamento (controllato dal partito) la riforma costituzionale che gli permette di effettuare tutti i mandati che vorrà: i voti contrari sono stati appena due su tremila.

In tutti questi casi il nazionalismo è il motore alla base dell’autorità dell’uomo al potere

Perché questi “uomini forti” sono relativamente amati, e comunque abbastanza da non dover ricorrere a un terrore permanente per governare? Anche se questo non impedisce che una repressione spietata si abbatta sui loro oppositori, come mostrano la Turchia attuale, la Cina che ha lasciato morire in prigione l’intellettuale dissidente Liu Xiaobo l’anno scorso, oppure la Russia che rende sempre più impenetrabile il suo sistema.

Sono molte le possibili risposte che permettono di comprendere le ragioni di questa concorrenza a cui assistiamo, anche all’interno dell’Unione europea, tra sistemi di valori “illiberali”, fondati sull’erosione di contropoteri come la giustizia, la società civile e la libertà d’informazione, e le vecchie democrazie liberali.

Il principale fattore comune è sicuramente la natura di questo “uomo forte” (vi sarete accorti che sono sempre degli uomini, anche se la storia ha avuto la sua quota di “donne forti”, come Indira Gandhi, Golda Meir o Margaret Thatcher, ma in epoche e contesti differenti).

Questi “uomini forti” appaiono agli occhi dei loro popoli come quelli più in grado di metterli al sicuro in periodi difficili o complessi. Vladimir Putin ha sicuramente ripristinato una certa stabilità in Russia dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il caos dell’epoca Eltsin, e da 18 anni ne trae beneficio. Recep Tayyip Erdoğan promette ai suoi elettori di proteggerli in un periodo di grandi tensioni regionali che rischiano di trascinare via con sé la Turchia, risvegliando il trauma del crollo dell’impero ottomano di esattamente un secolo fa, alla fine della prima guerra mondiale.

In tutti questi casi il nazionalismo è il motore alla base dell’autorità dell’“uomo forte”. Non si tratta solo della fierezza nazionale mostrata negli stadi o nelle discussioni da bar, bensì di un nazionalismo revanscista che seduce i popoli maltrattati dalla storia.

I russi sentono di essere stati umiliati con la fine dell’Urss, e una parte della retorica di Vladimir Putin accusa gli occidentali di aver voluto impedire alla Russia di riprendersi il rango che le spetta tra le primissime potenze mondiale dopo la guerra fredda.

In Europa le tentazioni autoritarie crescono con gli stessi ingredienti: paura dell’“altro”, incertezza per il futuro

Il Partito comunista cinese e Xi Jinping traggono una parte della loro legittimità dall’aver messo fine al “secolo dell’umiliazione”, come viene chiamato in Cina il periodo che seguì lo scontro con l’Europa alla metà del diciannovesimo secolo, e promettono di portare nuovamente la Cina a essere l’“impero di mezzo” di un tempo, ovvero molto semplicemente la prima potenza mondiale.

Lo stesso accade per la Turchia, che coltiva il suo passato di grandezza ottomano sullo sfondo dei suoi interventi militari in Siria o nel nord dell’Iraq. O ancora nell’Ungheria dell’assai illiberale Viktor Orbán, che soffre ancora per la ferita del trattato di Trianon (1920), all’origine dello smantellamento dell’impero austroungarico e della divisione degli ungheresi in vari paesi (Romania, Slovacchia, Serbia, Ucraina e altri).

Identità più forte dell’economia
Infine questi “uomini forti” sfruttano la paura dell’“altro”. Questo “altro” cambia a seconda dei paesi. Può essere l’immigrato di pelle scura e musulmano in Ungheria, il curdo o l’armeno in Turchia, l’occidentale che vuole umiliare la Russia oppure, nel caso specifico della Cina, l’occidentale oppure il migrante nelle zone povere del paese, geloso del successo economico e materiale della nuova classe media urbana.

In tutti questi casi, una parte non trascurabile della popolazione è convinta, anzi è stata convinta, della necessità di avere uno stato forte, un uomo dal pugno di ferro, “severo ma giusto”, per affrontare le minacce interne ed esterne, e soprattutto per assicurare il posto della nazione e delle sue varie componenti in mezzo alle turbolenze di questo mondo.

Questi fattori identitari sono sicuramente più forti della dimensione economica. In Russia, abbiamo sentito evocare in campagna elettorale la sindrome “del televisore e del frigorirero”: in televisione tutto è bello e funziona bene, ma quando apriamo il frigo ci accorgiamo delle difficoltà della vita quotidiana. Una cosa che però non ha impedito il successo di Putin.

La Cina rappresenta sicuramente un’eccezione da questo punto di vista: il nuovo tacito “contratto sociale” della Cina moderna è fondato al contempo sull’ascesa di una potenza rispettata da tutti, ma anche sull’arricchimento personale dei suoi abitanti, come accade per un numero sempre maggiore di loro da tre decenni. Se uno dei due elementi del “contratto” venisse a mancare, il potere potrebbe entrare immediatamente in una zona a rischio.

Di fronte a questo dinamismo dei grandi paesi autoritari, le democrazie liberali offrono uno spettacolo di divisione, dubbiosi sul loro stesso sistema di valori e di governo, e un’incapacità a intendersi su un progetto comune.

Ma soprattuto funzionano ciascuna in maniera autarchica, senza prendere davvero consapevolezza della posta in gioco su scala globale. È il caso degli Stati Uniti, dove una parte dell’elettorato continua a fidarsi della retorica demagogica “trumpiana”, anche se l’ultimo voto parziale mostra che lo zoccolo duro non è più sufficiente a vincere delle elezioni e le cose potrebbero cambiare in autunno, alle prossime elezioni di metà mandato.

Ma è vero soprattutto in Europa, dove le tentazioni autoritarie crescono da un’elezione all’altra, nell’est come nell’ovest, con gli stessi ingredienti visti altrove: paura dell’“altro”, disagio identitario, e incertezze sull’avvenire in un mondo che vive una mutazione geopolitica e tecnologica profonda.

Ora che la Germania, finalmente dotata di un governo dopo un lungo periodo di trattative, e la Francia, che affronta i primi veri banchi di prova sociali dell’“era Macron”, vogliono rilanciare un’Europa politicamente liberale, dovranno entrambe tener conto di queste paure e di questo contesto globale sfavorevole. Gli “uomini forti” non vogliono saperne di questa Europa liberale, e faranno di tutto per combatterla.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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