17 maggio 2018 10:10

Negli ultimi anni le analisi sul Medio Oriente hanno riproposto sempre lo stesso ritornello: la questione palestinese ha perso la sua centralità nel mondo arabo, i palestinesi sono stati dimenticati dalla storia. In effetti, il governo e buona parte degli abitanti di Israele si comportano da anni come se la questione palestinese non esistesse più, come se lo statu quo potesse durare in eterno.

Di sicuro Donald Trump era animato da preoccupazioni interne e non da una visione strategica globale quando ha deciso di compiere un passo che i suoi predecessori avevano evitato, trasferendo l’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme in attesa di un regolamento politico definitivo.

La mossa, e non serviva essere un fine conoscitore dell’“oriente misterioso” per prevederlo, è stata accolta come una provocazione dai palestinesi, sfociando nel massacro del 14 maggio a Gaza: almeno 60 palestinesi uccisi dai proiettili israeliani, 2.200 feriti, un bilancio di guerra per una giornata di protesta.

Da quel giorno la questione palestinese è tornata sulle prime pagine dei giornali. Il New York Times e il Washington Post hanno preferito aprire con una foto di Gaza invece che con quella della cerimonia inaugurale della nuova ambasciata, a cui hanno partecipato la figlia e il genero del presidente. La questione palestinese mobilita nuovamente i diplomatici al Consiglio di sicurezza dell’Onu, provoca l’espulsione di ambasciatori e comunicati indignati…

I vantaggi di Israele
Poi però non accade niente, almeno nell’immediato, perché mentre lo stato ebraico celebra il suo 70º compleanno e i palestinesi ricordano la nakba, la catastrofe dell’esodo del 1948, il rapporto di forze è chiaramente a vantaggio d’Israele.

Israele, infatti, può contare su un “allineamento di pianeti” particolarmente favorevole. Vediamolo.

  • L’amministrazione statunitense è completamente uniformata alle posizioni del governo israeliano (cosa che non accadeva da tempo) e ha appena fatto due regali allo stato ebraico: il ritiro dall’accordo sul nucleare iraniano contro cui il primo ministro Benjamin Netanyahu si batteva invano fin dalla firma del 2015 e il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme.
  • La principale potenza araba sunnita, l’Arabia Saudita, più ossessionata dall’Iran che dalla Palestina, si è alleata de facto con Israele nel “grande gioco” regionale appena iniziato.
  • L’Egitto del maresciallo Al Sisi, in guerra con i Fratelli musulmani e con i jihadisti del Sinai, non ha alcuna intenzione di sostenere Hamas, organizzazione nata nella sfera dei Fratelli musulmani egiziani che comanda a Gaza, dunque alla frontiera con l’Egitto.

Per questo Israele può permettersi di mantenere un atteggiamento inflessibile e brutale su tutti i fronti: nel giro di 48 ore il governo israeliano ha bombardato le postazioni iraniane in Siria senza incontrare resistenza (anche i russi hanno evitato di intervenire) e si è opposto con un utilizzo chiaramente sproporzionato della forza ai palestinesi di Gaza che cercavano di mettere in pratica una nuova forma di protesta contro il loro vicino.

Alle Nazioni Unite, Washington si comporta esattamente come fanno i russi per proteggere il loro “cliente” siriano, ovvero ponendo il veto per evitare qualsiasi imbarazzo e paralizzando l’unica istituzione che potrebbe legittimamente fare giustizia, agire, proteggere.

Bombe e sorrisi
L’unica cosa che è cambiata è il vecchio ritornello sulla sparizione del problema palestinese. Il disastro d’immagine per Israele e il suo “potere morbido” è apparso evidente il 14 maggio su tutti i mezzi d’informazione del mondo: da una parte il sorriso di Ivanka mentre scopre la targa della nuova ambasciata, dall’altra le vittime palestinesi di Gaza, tra cui molti bambini.

I portavoce israeliani hanno preso la parola ovunque per spiegare che Israele ha agito per legittima difesa, che la colpa è di Hamas, che l’esercito dello stato ebraico ha solo “resistito”, ma non sono riusciti a controbilanciare l’impatto delle immagini e la crudeltà dei numeri. Non si uccidono 60 persone disarmate solo per resistere.

Oggi i palestinesi non hanno una leadership rappresentativa e credibile, né a Gaza né in Cisgiordania

In ogni caso, dopo questi eventi tragici, non c’è traccia di soluzione all’orizzonte. Nessuno può pensare che il sentimento nazionale palestinese sparirà come per incanto e che un giorno la rassegnazione s’impossesserà di questo popolo, nell’immensa prigione a cielo aperto di Gaza o nei territori occupati in Cisgiordania e Gerusalemme Est, dove la gente ha più ossigeno ma le stesse prospettive inesistenti.

Oggi i palestinesi non hanno una leadership rappresentativa e credibile, né a Gaza, dove Hamas gestisce una popolazione perfettamente consapevole che il movimento islamista non ha niente da offrirle, né in Cisgiordania, dove l’Autorità Palestinese è ai minimi storici, a cominciare dal suo presidente Abu Mazen che si è appena dato la zappa sui piedi con l’ultima esternazione palesemente antisemita.

I palestinesi sono dunque orfani di una guida capace di definire una nuova strategia, un nuovo obiettivo sulle macerie degli accordi di Oslo che non sono stati sostituiti da nulla, ma sono anche orfani di una comunità internazionale e di un mondo arabo in particolare che da anni si limitano a quello che in inglese si chiama lip service, ovvero a pronunciare parole d’incoraggiamento senza mai impegnarsi davvero per difenderli.

Questa debolezza palestinese non lascia intravedere nulla di buono, soprattutto se non emergerà una prospettiva capace di incanalare la considerevole frustrazione che l’accompagna. Chi può davvero pensare, soprattutto in Israele, che un giovane palestinese di vent’anni, a Jabaliya o a Nablus, possa trascorrere la vita intera nella rassegnazione?

I fatti del 14 maggio dovrebbero far riflettere tutti quelli che, in Israele e altrove, esultano per questo rapporto di forze. Il processo che ci attende non ha la minima possibilità di portare a una soluzione, sarà solo l’ennesimo piano di pace da strapazzo ideato dagli stessi americani, che hanno appena perso qualsiasi credibilità come intermediari, e sostenuto dai sauditi, gli stessi che hanno fatto presente ai palestinesi che possono accettare un accordo o chiudere il becco.

Certo, esistono altre minacce che forse sono più preoccupanti, a cominciare dalla Siria dove israeliani e iraniani rischiano di scontrarsi, o l’Iran, a seconda della piega che prenderà la situazione dopo il ritiro degli americani dall’accordo sul nucleare. Ma la pentola a pressione palestinese non sparirà, anche se la centralità della questione palestinese può sembrare secondaria.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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