11 maggio 2020 09:44

La Corea del Sud è stata giustamente indicata come un modello da seguire per la sua gestione della prima ondata di covid-19 fuori della Cina. Ora, però, la situazione nel paese evidenzia anche i rischi legati alla ripresa della vita “normale”, in una società che fa grande affidamento sulla tecnologia e sulla responsabilità dei cittadini.

Il 9 maggio le autorità sudcoreane hanno sospeso l’apertura dei locali notturni e dei bar della capitale Seoul, dopo una nuova ondata di contagi causata da comportamenti evidentemente incoerenti con l’invito a mantenere le distanze fisiche.

Il problema è che questi contagi si sono verificati all’interno di locali gay, e questo ha provocato una valanga di commenti omofobi (sui social network ma anche nei mezzi d’informazione) complicando l’identificazione di nuovi casi.

Diversi insegnamenti
Tutto è partito da un soggetto affetto da covid-19 che nella notte del 1 maggio ha fatto il giro dei principali locali gay di Seoul, il più grande dei quali può accogliere fino a cinquecento persone. L’uomo è risultato positivo al virus qualche giorno dopo, e le successive indagini hanno dimostrato che era entrato in contatto con quasi duemila persone. Finora sono stati riscontrati trentaquattro nuovi casi di contagio legati a quest’uomo.

Attraverso un’app di tracciamento le autorità hanno convocato le 1.946 persone potenzialmente contagiate per chiedere che si sottopongano al test, riproponendo un metodo che ha dato ottimi risultati durante la prima ondata. Tuttavia nel fine settimana solo 637 persone si sono fatte avanti, ovvero appena un terzo del totale. Il motivo, probabilmente, è che rispondere alla convocazione significherebbe ammettere la propria omosessualità. Non proprio la scelta più consigliabile considerato il clima attuale.

Innanzitutto scopriamo che la riapertura non è una linea retta senza ostacoli

L’esempio sudcoreano ci offre diversi insegnamenti. Era così già quando Seoul inanellava un successo dietro l’altro, con appena 265 decessi in un paese di cinquanta milioni di abitanti e colpito dal virus subito dopo la Cina. È così anche oggi, con questo capovolgimento che fa tornare parzialmente indietro la situazione.

Innanzitutto scopriamo che l’apertura non è una linea retta senza ostacoli. Lo sapevamo già, ma gli esempi concreti lo confermano. La Corea del Sud non aveva imposto una chiusura totale, ma un controllo ristretto sulla base dei test, dei tracciamenti digitali e dei comportamenti adeguati. Ora il paese si trova nella fase che l’Europa si prepara ad affrontare, all’indomani del picco dell’epidemia. È evidente quanto sia essenziale la massima prudenza.

Il secondo insegnamento riguarda i limiti del tracciamento tramite smartphone in un sistema democratico. Le applicazioni sono un mezzo utile, ma non la panacea di tutti i mali.

Il terzo insegnamento, sicuramente il più importante, è legato alla facilità con cui i pregiudizi, la ricerca dei capri espiatori e la stigmatizzazione dei gruppi etnici, delle minoranze sessuali e delle persone considerate “diverse” possano riaffiorare nel clima di paura e d’incertezza tipico della pandemia.

Le società più avanzate non devono credersi al riparo, ma continuare a essere vigili e monitorare la situazione. Questa è la lezione della ricaduta sudcoreana, nel momento in cui noi europei ci prepariamo al salto nel buio della riapertura.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it