Come prevedibile, il primo leader straniero a essere ricevuto da Donald Trump dopo il ritorno alla Casa Bianca sarà Benjamin Netanyahu. Il primo ministro israeliano arriva a Washington in un momento cruciale. In linea di principio, infatti, le trattative per la seconda fase dell’accordo sul cessate il fuoco a Gaza (e dunque per la prosecuzione della liberazione degli ostaggi e dei prigionieri) dovranno partire il 3 febbraio. Netanyahu voleva posticiparle all’indomani del suo incontro con Trump, ma gli statunitensi hanno voluto rispettare il calendario.

Questo incidente sulla tempistica evidenzia fino a che punto il rapporto tra Israele e gli Stati Uniti sia pieno di “non detti”. Certo, Donald Trump è fondamentalmente favorevole allo stato ebraico e il suo segretario di stato Marco Rubio ha dichiarato che l’amministrazione Trump sarà la “più filoisraeliana della storia”.

Ma al contempo Trump è un presidente che fa di testa sua, ha un approccio mercantile e non rispetta né amici né alleati. In questo senso è possibile che il suo programma non combaci con quello del primo ministro israeliano.

La seconda fase dell’accordo su Gaza è un esempio di questa situazione: le famiglie degli ostaggi che sono ancora nelle mani di Hamas temono che Netanyahu non abbia intenzione di avviare la seconda fase dopo aver ottenuto la liberazione di trenta ostaggi nella prima.

Il motivo è che la seconda fase comporta una cessazione permanente delle ostilità, e Netanyahu (come buona parte degli israeliani) ha osservato con sgomento il ritorno nelle strade dei militanti di Hamas, ancora armati e in controllo della situazione. Il primo ministro si era impegnato a debellare l’organizzazione, ma non ha raggiunto l’obiettivo nonostante l’eliminazione dei suoi vertici. Da questo deriva una forte tensione di riprendere la guerra, per impedire a Hamas di consolidare il proprio potere.

Donald Trump, invece, vuole che la guerra finisca perché ha in mente un piano più ambizioso: vuole concludere un accordo tra l’Arabia Saudita e Israele, che resterà impossibile fino a quando a Gaza ci sarà la guerra. Trump è determinato a completare gli accordi di Abramo (che aveva avviato durante il suo primo mandato) con quello che è diventato il paese chiave del mondo arabo.

Di sicuro Trump ha già dimostrato di avere la capacità di influire sulle scelte di Netanyahu. Il mese scorso il suo emissario Steve Witkoff, imprenditore del settore immobiliare senza alcuna esperienza nella regione, ha fatto pressione sul primo ministro israeliano affinché firmasse l’accordo per il cessate il fuoco.

L’incontro del 4 febbraio sarà determinante anche per l’Iran. Trump potrebbe essere tentato di negoziare con Teheran a proposito del nucleare (e l’Iran ha inviato segnali favorevoli in questo senso) ma il primo ministro israeliano è favorevole a una soluzione militare.

A Gerusalemme alcuni cartelloni pubblicitari hanno festeggiato l’elezione di Donald Trump come quella di un amico. Ma si tratta di un amico particolare, lo stesso che vuole espellere due milioni di palestinesi da Gaza mettendo in imbarazzo tutto il mondo, tranne naturalmente l’estrema destra israeliana.

Con un presidente imprevedibile e con un approccio mercantile, la fibra ideologica e sentimentale non funziona. A Washington Netanyahu potrà verificare se davvero Trump ha intenzione di seguirlo nella sua agenda personale. Da questo incontro dipenderanno in buona parte le sorti della guerra e della pace nei prossimi mesi.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it