È stata una di quelle settimane in cui si fa fatica a stare dietro alle notizie su Trump, tra misure approvate, minacciate o solo annunciate, dichiarazioni clamorose, rivelazioni sulle dinamiche di potere nella Casa Bianca, marce indietro, altre misure, altre dichiarazioni clamorose.
Alcune delle cose che il presidente ha fatto solo tra lunedì e venerdì: ha sospeso temporaneamente i dazi commerciali contro Messico e Canada approvati due giorni prima; ha ordinato ai dipendenti dell’ufficio per la protezione finanziaria dei consumatori di smettere di lavorare; ha cominciato a smantellare l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (Usaid); ha proposto la creazione di un fondo sovrano per comprare TikTok; ha annunciato che continuerà ad aiutare l’Ucraina se Kiev darà in cambio minerali preziosi e terre rare; ha detto che gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia di Gaza (piano smentito il giorno dopo dalla portavoce della Casa Bianca e poi di nuovo rivendicato da Trump il giorno dopo ancora).
E ancora: ha chiesto la revisione dei contribuiti degli Stati Uniti all’Onu; reintrodotto la politica di massima pressione contro il programma nucleare iraniano; ha annunciato che il governo di Panamá ha accettato di eliminare le tariffe per il passaggio delle navi governative statunitensi nel canale (il governo panamense ha smentito); ha offerto ai dipendenti della National security agency la possibilità di dimettersi; ha detto di voler trasferire i “criminali incalliti” statunitensi in Salvador; usato un aereo militare per rimpatriare più di cento immigrati indiani; ha firmato un ordine esecutivo per escludere le atlete trans dalle competizioni femminili; sanzionato la Corte penale internazionale e firmato un ordine esecutivo per combattere i “pregiudizi anticristiani”.
Bisognerà seguire gli sviluppi nel tempo per capire quali di queste decisioni e prese di posizione produrranno degli effetti, ma intanto possiamo allargare un po’ lo sguardo per cominciare a farci un’idea sulla direzione verso cui si sta andando. In sostanza: Trump ha un piano? Provo a rispondere qui aiutandomi con alcuni degli articoli di approfondimento più interessanti che ho letto in settimana.
Nessuno ha la pretesa di spiegarci cosa pensa Trump (anche perché è molto probabile che non lo sappia del tutto nemmeno lui) né tantomeno di dirci cosa farà, ma aiutano a capire come si è formata la sua visione del mondo e come quella visione si inserisce in un contesto storico di cambiamenti traumatici.
Il primo articolo parla di geopolitica. L’ha scritto Michael Ignatieff, commentatore e politico canadese (in passato ha guidato il Partito liberale di quel paese). Uscito sul Financial Times prima dell’insediamento del nuovo presidente, prevedeva molte delle cose che stanno succedendo in questi giorni, soprattutto nei rapporti tra Canada e Stati Uniti.
Si dice spesso che Trump si muove in politica estera con un approccio da capo d’azienda, che prevede di cercare di volta in volta il miglior accordo possibile – motivo per cui è insofferente verso le alleanze tradizionali – per realizzare la promessa di far tornare l’America grande nel mondo. È uno slogan che abbiamo sentito migliaia di volte, ma cosa vuol dire concretamente per il ruolo degli Stati Uniti nel mondo? Secondo Ignatieff, i progetti di Trump su Canada, Groenlandia, Messico e Panamá hanno senso in una visione in cui le sfere di influenza governeranno la politica globale del ventunesimo secolo. “Forse Trump sta guardando al futuro, a un mondo in cui non c’è più un ordine internazionale basato sulle regole e in cui il potere sull’economia globale si concentra intorno a tre zone d’influenza: la Cina in Asia orientale, la Russia in Eurasia e gli Stati Uniti nell’emisfero occidentale, che si estende dalla Groenlandia nell’Artico al Cile all’estremità meridionale dell’America Latina”.
L’America tornerebbe grande prendendo il controllo dei minerali estratti in Groenlandia e piazzando i suoi bombardieri e i sistemi di sorveglianza statunitensi nella vecchia base aerea di Thule; creando un’unica economia nordamericana, in cui Washington sarebbe in una posizione dominante e potrebbe avere facile accesso al petrolio, al gas, all’uranio e ai minerali canadesi; costruendo un muro per tenere fuori i latinoamericani dal paese e usando il Messico come serbatoio di manodopera a basso costo per i produttori statunitensi; garantendosi un accesso privilegiato al canale di Panamá, in modo da escludere la Cina.
Forti della loro influenza nel continente americano, gli Stati Uniti potrebbero accettare le sfere d’influenza russa e cinese e tagliare i legami che in questi decenni hanno ancorato i loro interessi strategici all’Europa e all’Asia. “Quale interesse strategico avrebbe ancora l’America a difendere Taiwan dalla Cina o l’Ucraina dalla Russia?”. I vecchi alleati dovrebbero difendersi da soli, una prospettiva preoccupante soprattutto per l’Europa.
Il disimpegno sarebbe funzionale a quello che è forse il vero grande obiettivo dell’amministrazione Trump, almeno a giudicare dalle notizie di questi giorni: lo smantellamento o per lo meno il forte ridimensionamento dell’apparato statale. “Messe da parte le principali dottrine di difesa degli Stati Uniti – secondo cui il paese deve essere in grado di combattere guerre su due fronti contemporaneamente in difesa di alleati lontani – si potrebbero operare tagli sostanziali allo stato americano e alla sua struttura di difesa, andando a soddisfare le richieste di un elettorato repubblicano disilluso, che vuole un governo concentrato sul fronte interno e vuole punire lo ‘stato profondo’ che ha supervisionato l’espansione imperiale americana dopo il 1945. Concentrare il potere degli Stati Uniti sul loro emisfero permetterebbe a Trump di far quadrare molti cerchi: ridurre l’impronta imperiale statunitense e abbassare la pressione fiscale sui ricchi tagliando l’apparato necessario per conservare l’attuale posizione del paese nel mondo”.
Il secondo articolo, scritto da Andrew Liu, docente di storia esperto di Cina, racconta come si è formata la visione economica di Trump e del leader cinese Xi Jinping.
Liu fa notare che negli anni Trump ha cambiato idea su tutto tranne che sui dazi commerciali, visti come uno strumento sia di politica estera sia di politica interna. Quando ha scritto il suo libro più famoso, The art of the deal, nel 1987, gli Stati Uniti erano in piena isteria a causa dei rapporti economici con un altro paese, accusato di inondare il mercato statunitense e di tenere chiuso invece il proprio. Si trattava del Giappone, che aveva aumentato di molto le sue esportazioni verso gli Stati Uniti, in particolare di automobili, in un periodo di declino dell’industria manifatturiera statunitense. Quando presentò il suo libro da Oprah Winfrey, Trump disse delle cose che ricordano molto le dichiarazioni di oggi sulla Cina: “Siamo una nazione in debito. Nei prossimi anni succederà qualcosa in questo paese, perché non si può continuare a perdere 200 miliardi di dollari, eppure lasciamo che il Giappone scarichi di tutto sui nostri mercati. Non è libero scambio. Invece per noi è quasi impossibile cercare di vendere qualcosa in Giappone”.
Con il passare degli anni Trump ha mantenuto la stessa convinzione – ci stanno fregando! – ma ha sostituito il Giappone con la Cina. Come negli anni ottanta, l’ostilità verso le pratiche commerciali di un altro paese è così forte da unire gli esponenti di entrambi gli schieramenti e il grosso dell’opinione pubblica, ma rispetto a quarant’anni fa ci sono differenze enormi che Trump, ossessionato dai numeri del deficit commerciale, non sembra vedere.
Il Giappone era un alleato degli Stati Uniti (la cui crescita peraltro faceva parte di una più ampia strategia di Washington per guadagnare influenza nella regione in chiave anticomunista) e convincerlo a cambiare politica commerciale non fu così difficile. Con il cosiddetto accordo del Plaza, Tokyo si impegnò a ridurre le esportazioni e ad aprire il proprio mercato alle merci del resto del mondo, favorendo così l’aumento dei consumi interni. Trump vorrebbe imporre qualcosa di simile alla Cina oggi, usando la minaccia di dazi come leva politica. Ma la riuscita di un piano del genere è tutt’altro che garantita. La Cina è una grande potenza con un’influenza internazionale molto più grande di quella del Giappone negli anni ottanta. E bisogna considerare, spiega Liu, che anche Xi Jinping ha formato la sua visione economica in quel periodo, ed è intenzionato a non commettere gli stessi errori di Tokyo.
Sotto la pressione dei paesi occidentali, infatti, il ministero delle finanze giapponese abbassò i tassi d’interesse e le banche diedero il via libera a grandi progetti immobiliari. Il denaro facile, unito alla diminuzione delle esportazioni, spinse le imprese giapponesi verso la speculazione immobiliare. All’inizio degli anni novanta la bolla creditizia scoppiò, contribuendo alla crisi asiatica del 1997.
La Cina ha costruito la sua crescita economica puntando sulla produzione industriale e sulle esportazioni, nella convinzione che l’aumento delle importazioni e dei consumi interni farebbe crescere l’inflazione e potrebbe alla lunga scalfire il controllo politico del partito comunista. Le minacce e i dazi di Trump possono fare dei danni, ma difficilmente convinceranno Pechino a cambiare il suo modello economico e politico.
Anche perché nel frattempo la Cina è diventata piuttosto brava ad aggirare i dazi statunitensi, imposti da Trump durante il primo mandato e confermati dall’amministrazione Biden, spostando fabbriche e investimenti in altri paesi, come Messico, Taiwan, Malaysia, India, Corea del Sud e Vietnam. “Nel 2023 la Foxconn, un’azienda taiwanese tra le più grandi nel settore dei componenti elettronici, ha aperto una fabbrica di iPhone a Chennai, in India. Sia le aziende cinesi sia quelle statunitensi che producono automobili, pneumatici e batterie per auto hanno aperto fabbriche in città messicane come Coahuila, Guadalajara, Monterrey e Tijuana.
Trump è preoccupato che la Cina possa sfruttare il trattato nordamericano di libero scambio per aggirare i dazi ed esportare auto negli Stati Uniti attraverso Canada e Messico. Questo timore contribuisce a spiegare le minacce di dazi nei confronti dei paesi vicini”. Intanto la Cina ha anche costruito una “architettura commerciale alternativa”, concludendo accordi bilaterali di libero scambio con molti altri paesi.
Il terzo aspetto riguarda la comunicazione. Non si può capire il modo di governare di Trump senza parlare di come riesce ad attirare l’attenzione dei mezzi d’informazione e dell’opinione pubblica. Trump sa che per avere successo – in campagna elettorale e una volta arrivato al potere – deve dominare lo spazio pubblico, e il modo migliore per riuscirci è inondarlo di annunci, decisioni, dichiarazioni. In inglese c’è un’espressione per descrivere questa strategia: flood the zone. In questi giorni in molti stanno recuperando un’intervista del 2019 a Steve Bannon, ideologo della destra populista ed ex consigliere di Trump: “Il partito di opposizione è quello dei mezzi d’informazione. E i mezzi d’informazione, che sono stupidi e pigri, possono concentrarsi solo su una cosa alla volta. Tutto ciò che dobbiamo fare è inondarli di notizie. Ogni giorno li colpiamo con tre cose. Abboccheranno a una e riusciremo a fare tutto il nostro lavoro. Bang, bang, bang. I giornalisti non riusciranno mai a starci dietro. Ma dobbiamo partire a razzo. Bisogna martellare”.
Nei sei anni passati dall’intervista a Bannon il dibattito pubblico nelle nostre società è cambiato in un modo che ricompensa ancora di più chi adotta una strategia di quel tipo: i mezzi d’informazione tradizionali sono meno rilevanti e più in difficoltà a livello economico, i social network sono andati in una direzione che alimenta la frammentazione e l’abbondanza delle informazioni e spinge a usare qualsiasi mezzo per attirare l’attenzione, premiando quindi i toni più esagerati e i contenuti più controversi.
Come ha scritto Chris Hayes sul Guardian, oggi chiunque ha un megafono a disposizione con cui attirare l’attenzione, e questo contribuisce al caos informativo. Ma non tutti i megafoni sono uguali: chi ha quello più grande e potente, per esempio un presidente degli Stati Uniti sostenuto dall’uomo più ricco del mondo, vince la battaglia per l’attenzione e controlla lo spazio pubblico. Così Trump ha sempre un giro di vantaggio sull’opposizione – che anche per questo ora fatica tremendamente a riorganizzarsi – e dice al paese di essere l’unico capace di fare cose e risolvere problemi: in due settimane può tagliare a piacimento le spese del governo, cancellare gli aiuti all’estero, abolire lo ius soli, cacciare tutti gli immigrati irregolari, sottomettere i paesi vicini, ripulire la Striscia di Gaza e tanto altro.
Ma è davvero così? Ezra Klein, commentatore del New York Times, è convinto che dietro la strategia di Trump ci sia un grande bluff: fa la voce grossa per far credere di essere più forte di quanto sia realmente, cerca di nascondere la realtà alterando gli umori e la percezione, cosa che ha sempre fatto molto bene anche da imprenditore (tantissime persone negli Stati Uniti e nel mondo gli attribuiscono una ricchezza che in realtà non ha mai avuto). “Si comporta come un re perché è troppo debole per governare come un presidente”.
Secondo Klein il presidente è debole perché ha un capitale politico limitato. “Sia nel primo sia nel secondo mandato è entrato in carica con indici di popolarità inferiori a quelli di qualsiasi altro presidente dell’era moderna. Secondo Gallup, l’indice di popolarità di Trump è del 47 per cento, circa dieci punti in meno rispetto a quello di Joe Biden nel gennaio del 2021”. Inoltre Trump ha un margine limitato per realizzare quello che ha promesso in campagna elettorale. “C’è un motivo”, spiega Klein, “se sta facendo tutto attraverso ordini esecutivi invece che inserendo le stesse proposte in leggi da approvare al congresso. I repubblicani hanno solo tre seggi più dei democratici alla camera. Se Trump cercasse di passare per il congresso, molto probabilmente fallirebbe, e questo lo farebbe sembrare debole”.
Resta quindi la strada tracciata da Bannon, andare avanti a razzo e alzare sempre di più la posta per reggere il bluff. È una strategia sostenibile nel lungo periodo? Potrebbe ritorcersi contro il presidente? Molti dei suoi decreti sono stati immediatamente bloccati dai tribunali e a molti altri potrebbe toccare la stessa sorte. Ancora più che nel primo mandato, il suo programma politico rischia di dipendere da anni di cause legali, non il massimo per un presidente che ha promesso di ribaltare l’ordine interno e internazionale. Inoltre i suoi tentativi così sfacciati di accaparrarsi un potere senza limiti potrebbero avere l’effetto di risvegliare l’opposizione.
In altre parole, conclude Klein, il piano di Trump consisterebbe nel farci credere di avere un piano. Forse funzionerà finché la realtà e la percezione resteranno separate.
Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.
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