01 dicembre 2017 11:49

Sono le sei di pomeriggio a Tempe, in Arizona, e fuori è buio pesto. Sono intrappolato su un piccolo spartitraffico in mezzo a una strada a scorrimento rapido di cinque corsie, insieme a un gruppo un po’ troppo numeroso di persone. Siamo qui perché una fila di auto, svoltando a sinistra, ci ha bloccato il passaggio. È quel genere di cose che succede in città come questa, progettate più per le automobili che per i pedoni.

Un suv si avvicina a pochi centimetri da noi, facendoci indietreggiare dalla paura, mentre aspettiamo che scatti il verde. Il finestrino del guidatore è abbassato, per far entrare nell’auto un po’ di aria fresca. L’uomo al volante sembra annoiato, come quasi tutti gli automobilisti. Ma non è un automobilista, non esattamente almeno. È al volante di una Volvo automatica di Uber: l’azienda, infatti, sta provando le sue auto senza guidatore qui a Tempe. Con le mani distese sulle gambe, il guidatore sembra uno di noi: un pedone in attesa che le auto si muovano.

Che sia tra cinque o tra venticinque anni, auto come questa saranno il mezzo che in futuro le persone useranno per spostarsi da un posto all’altro. Questo potrebbe liberarle dalle seccature e dai rischi legati al traffico, oppure potrebbe far gravare su di loro nuovi fardelli quando i servizi tecnologici governeranno le città. Qualunque cosa succederà, le auto autonome finora sono sembrate un concetto astratto e ipotetico – qualcosa di cui si parla nelle conferenze delle grandi aziende, più che nella vita quotidiana.

Ma trovandomi a pochi centimetri da questa auto robot di Uber, per la prima volta sono colpito dalla realtà tangibile e ordinaria di questo futuro. Questa non è una corsa di prova o un video promozionale. E non siamo a San Francisco o nella Silicon valley. Questa è un’auto che si guida da sola in una città di provincia degli Stati Uniti, dove le automobili la fanno da padrone.

Poche persone provano la strana sensazione che accompagna la transizione verso le auto autonome oggi. Ma oltre a immaginare l’impatto tecnologico, ecologico, sanitario e civile delle auto senza conducente, è giunto anche il momento di chiedersi che effetto farà condividere la città con queste vetture. Quando smetteranno di essere sbalorditive e diventeranno semplicemente normali, le auto robotizzate cambieranno qualcosa di altrettanto fondamentale, ma di cui spesso non ci rendiamo conto: l’aspetto della vita quotidiana delle città.

Il termine pilota sembra eccessivo, adesso che ne vedo uno in carne e ossa

Uber si è lanciata tardi nella corsa alle auto senza conducente. La Waymo, la divisione di Google dedicata al progetto, e perfino la Tesla sembravano destinate a entrare prima di lei sul mercato. Ma Uber ha recuperato il terreno perduto. Quest’anno ha trasferito la sua flotta di auto automatiche di prova a Tempe, dopo una disputa con la California a proposito delle autorizzazioni. E questo non è il primo test tecnologico del genere condotto in una città. Sono anni che Google testa le auto robot a Mountain view, prima di spostare la sua divisione dedicata ai veicoli automatici nella Central valley californiana. Anche Uber ha una flotta di auto sperimentali a Pittsburgh, dove ha fatto trasferire i migliori ricercatori di robotica e visione artificiale dell’università Carnegie Mellon.

Il governatore dell’Arizona, Doug Ducey, si è dimostrato particolarmente collaborativo nei confronti dei servizi di condivisione delle auto, e in particolare di Uber. Quando Ducey ha aperto le porte dell’Arizona a Uber, l’azienda ha accettato l’invito.

Un portavoce di Uber mi ha detto che i test nel mondo reale sono fondamentali per il successo del suo programma di guida automatica. I suoi autisti di Tempe aiutano l’azienda a migliorare la tecnologia, in particolare quella che riguarda gli interessi e le preoccupazioni dei passeggeri. Uber non usa il termine “autisti”, bensì “piloti” oppure “operatori”. L’azienda chiede ai lavoratori, alcuni dei quali hanno lavorato in passato come suoi autisti, di seguire una formazione di tre settimane prima di sedersi al volante di un’automobile senza conducente. Il termine pilota sembra eccessivo, adesso che ne vedo uno in carne e ossa dallo spartitraffico. Operatore suona un po’ strano, quando si parla di automobili, ma è più preciso: non siamo forse ormai tutti degli operatori, per buona parte del tempo? Sono i computer a svolgere il lavoro, mentre gli esseri umani li convincono a farlo.

Nel posto del passeggero dell’automobile di fronte a me, un copilota controlla su un computer portatile la mappa della strada, immortalata dalla strumentazione lidar, il sistema di rilevamento laser usato per dare indicazioni stradali, installata sopra all’automobile. Come il navigatore di un rally, è qui per segnalare cosa fare in caso di necessità. Lo schermo è per lo più vuoto, se si eccettuano le automobili e altri ostacoli che lampeggiano in rosso, il colore del pericolo.

Dal momento che le auto automatiche sono una novità in fase di test, ogni minimo errore è giudicato con severità. A marzo di quest’anno uno dei veicoli di Uber a Tempe è stato coinvolto in un incidente, un evento di cui i giornali hanno parlato molto anche se non c’è stato alcun ferito grave e non era colpa dell’auto. La scorsa settimana un veicolo per passeggeri automatico a Las Vegas è stato coinvolto in un incidente nel suo primo giorno di servizio: un camion, facendo marcia indietro, aveva colpito il veicolo in sosta, ammaccandolo leggermente. Eppure i mezzi d’informazione hanno parlato di scontro stradale.

Queste reazioni non aiutano. Il “dilemma del carrello” è sempre stato concepito come un esperimento filosofico, non un manuale etico per i robot assassini. Mentre mi trovo su uno spartitraffico vicino a un veicolo che pesa una tonnellata guidato da un computer, la questione sembra più complessa, indubbiamente perché sono io a essere in pericolo.

Provare le auto senza conducente in questa città è una scelta logica: questo è il loro habitat naturale

Le linee seducenti delle auto autonome di Uber attenuano la minaccia: di colore grigio ardesia, con un disegno discreto e astratto a decorare le porte posteriori. La scritta “Uber” è sul paraurti posteriore, come se fosse stata aggiunta solo all’ultimo momento. Anche il dispositivo lidar è bello, di un colore bianco barite che contrasta con il grigio, con forme ondulate e un sensore nero in cima. Anche qui il design del suv gioca un ruolo importante. Il veicolo appare forte e sembra avere la situazione sotto controllo, oltre che naturalmente sicuro, la caratteristica aziendale che più spesso viene associata alla Volvo.

E poi c’è il sole. Il cielo appare in tutta la sua grandezza e di un colore blu intenso, senza essere disturbato dagli edifici bassi e dalle palme. La luce crea dei contrasti forti e rende ogni ora magica, come se fosse il tramonto. Quando un veicolo di Uber attraversa queste strade, sembra di trovarsi in un set fotografico. Tutti lo notano.

La struttura di Tempe spiega bene il ruolo delle auto negli Stati Uniti. Grandi strade, ben delineate, con quattro, cinque o sei corsie. Provare le auto senza conducente qui è una scelta logica: questo è il loro habitat naturale. Gli abitanti di New York, San Francisco e perfino di Pittsburgh camminano e usano in massa il treno, l’autobus e le biciclette. A Tempe, i ciclisti si muovono sui marciapiedi anche se sulle strade ci sono larghe piste ciclabili pensate per loro. Ma dove potrebbero andare, in ogni caso? L’area metropolitana di Phoenix è molto vasta e il caldo è soffocante per buona parte dell’anno. Gli incroci stradali sembrano mari d’asfalto e rendono gli attraversamenti dei pedoni dei viaggi torridi e avventurosi. Questo è un posto fatto per le automobili.

Un video del New York Times del 2016


I progetti di guida automatica di Uber non fanno che aumentare il ruolo delle auto come strumento di audacia e temerarietà. Per tutto lo scorso anno l’azienda si è lasciata dietro di sé una scia di scandali, ed è stata accusata di molestie sessuali e furti industriali, truffa ai danni delle autorità e sabotaggio dei sindacati. Ma nelle strade di Tempe, le Volvo con il suo logo hanno più l’aria di nonne innocue che di avidi capitalisti. Si muovono lentamente in quello che sembra un circuito che ruota, in senso orario, intorno al campus dell’università di Arizona State. Sono così numerose che, quando ci si trova su un marciapiede lungo il loro tragitto, sembra di assistere a un safari improvvisato di veicoli che si guidano da soli.

Per avere un quadro completo, il giorno dopo mi siedo a pranzo al tavolo di un ristorante della catena P.F.Chang, dove posso osservare l’incrocio tra Mill avenue e University drive. È il luogo perfetto per osservare una spedizione di auto robot: il ristorante di una grande catena all’interno di un centro commerciale è la più classica delle destinazioni per un automobilista suburbano.

“Ha mai provato un’auto che si guida da sola di Uber?”, chiedo alla cameriera, che ha più o meno la stessa età degli studenti che si trovano fuori. “Oddio, no”, risponde immediatamente. “Sarei terrorizzata”. Le spiego che per ora hanno ancora un autista al volante, e la cosa la rassicura un po’. “Allora forse potrei provare. Forse”. Poi comincia a parlarmi del nuovo negozio della Tesla a Scottsdale. Elon Musk potrebbe decidere un giorno di trasformare la Tesla in un servizio auto come Uber, ma non credo sia questo il motivo per cui me ne parla. Semmai è perché Tesla, Uber, Waymo e tutti gli altri nomi appaiono come un’unica massa indistinta a chi non segue attentamente il mondo della tecnologia applicata al trasporto.

Capisco cosa vuole dire. Uno dopo l’altro i robot Uber grigi voltano l’angolo, sempre nello stesso modo, girando a destra da Mill verso l’università. A volte arrivano in piccoli gruppi, uno dopo l’altro. Le frecce lampeggianti e sincronizzate di queste auto le fanno sembrare più dei robot del passato che degli androidi futuristici.

Sicuramente fare un giro su una di queste auto mi aiuterebbe a chiarire alcune cose. La cameriera mi porta il conto e il mio biscotto della fortuna, che apro subito. “Il futuro ti riserva un lieto evento”.

Esaltato, faccio alcune ricerche su Google. A marzo, quando Google è sbarcata a Tempe, i mezzi d’informazione locali hanno riferito che chiamando un UberX all’interno dell’area di prova i passeggeri avrebbero potuto ricevere un’auto senza conducente. Per essere sicuro di farcela mi metto accanto alla strada appena prima dell’incrocio, dove vedo svoltare tutte le auto robot. Per la mia prima chiamata occorre molto tempo, il che mi sembra un segnale promettente. A Tempe, a novembre, ci sono ancora 30 gradi e mi sto scottando. Poi arriva la delusione: la mia app mi avvisa che è in arrivo Mark, con la sua Hyundai.

Cancello la prenotazione e mi sposto oltre l’incrocio, sedendomi sulla panchina di una fermata dell’autobus per riprovare. Forse devo scegliere Uber select, mi dico. Mentre aspetto la mia corsa passano altre due robot Volvo. Cerco di far loro cenno di fermarsi, ma non è più così che funzionano le cose. Per i due piloti sono solo un puntino rilevato dal lidar: un ostacolo da evitare finché non sfiderò il computer con il dilemma del carrello. Il mio telefono vibra. Samir, su una Suburban, sta venendo a prendermi. Cancello di nuovo la corsa e Uber mi avverte che potrebbe essermi addebitata una spesa, perché l’autista stava già venendo a prendermi. Dietro di me un annaffiatoio getta acqua sul prato di festuca inspiegabilmente piantato in mezzo al deserto.

Passano altre Uber a guida autonoma e finalmente mi accorgo che sono tutte senza passeggeri. Solo piloti che conducono test per un ipotetico futuro. Oppure il più costoso e complicato esercizio di branding. O entrambe le cose.

In seguito un portavoce di Uber mi ha detto che l’era dei veicoli autonomi è ancora agli albori. I passeggeri non possono ancora richiedere un’auto di Uber senza guidatore, ma c’è la possibilità che gliene venga assegnata una, in certe particolari condizioni. Oltre a quello di provare scenari reali, i piloti hanno anche il compito di valutare come i passeggeri reagiscono a questa tecnologia.

In seguito il personale della comunicazione dell’Advanced technologies group di Uber mi offre, in maniera molto insistente, di organizzare una corsa per me, in modo che possa raccontare la mia esperienza. Ma quando mi contattano ho già lasciato la città. La verità è che l’automobile, per ora, è solo una sfilata di carnevale. Il vero spettacolo è osservarla con lo sguardo rivolto al futuro.

Ci rinuncio e torno in albergo. È uno degli hotel che in questa zona sono stati restaurati e ora tornano a risplendere nella loro eleganza di metà secolo. Forma slanciata, facciata di pietra e mobili di noce dalle linee morbide. Questo posto ha enormi insegne al neon con su scritto “hotel” e “piscina”, che fanno pensare all’eleganza degli Stati Uniti su strada degli anni cinquanta e sessanta.

Le strade sono sempre appartenute alle persone

Allora come oggi, l’automobile era una tecnologia di successo e di libertà. Un’automobile rendeva accessibile qualsiasi luogo, anche solo in teoria. Anche per questo le auto sono diventate uno strumento di espressione personale: così come andare in un qualche luogo era una scelta, anche il modello e il colore di un’auto comunicavano uno stile. Le Volvo di Uber grigie, per quanto seducenti, preannunciano la fine di questo fascino. Come può un’automobile rappresentare una promessa di libertà quando devi chiedere a un’azienda di fartela usare?

Le auto finiranno per accomodarsi sullo sfondo. Diventeranno infrastrutture: saranno sempre importanti, ma passeranno inosservate, a meno che non si rompano. Le persone non si preoccuperanno più del modello delle automobili, non più di quanto potrebbero essere interessate alla marca di un ascensore o del materiale rotabile di una metropolitana.

Potranno essere infastidite dalla lentezza di un ascensore o dal ritardo di un treno, ma simili questioni sono imprevisti sostanzialmente imponderabili, estranei all’influenza delle persone ordinarie. E man mano che sparirà l’intimità della scelta, della guida e della manutenzione delle auto, le persone svilupperanno una nuova tolleranza nei confronti dei modelli scelti dalle aziende che si occupano di tale servizio, in termini di apparenza esterna e di accesso.

È un’ovvia conseguenza dell’automatizzazione dei veicoli, ma che non mi è apparsa nella sua concretezza finché non li ho visti nel deserto, senza passeggeri, che si muovevano in cerchio intorno a Tempe. Buona parte delle città statunitensi è occupata da strade, a loro volta occupate da automobili, a loro volta occupate da persone. Ci sarà un grande cambiamento culturale se tutto questo spazio sarà ceduto a un piccolo gruppo di aziende. Non solo nelle grandi cose, ma anche in quelle piccole, come l’attesa su uno spartitraffico, su un marciapiede oppure la percezione di colori e stili differenti. Piccole esperienze come queste definiscono, in modo sottile, i contorni della nostra vita quotidiana.

È chiaro che le automobili continueranno ad avere un ruolo negli Stati Uniti. Ma finora sono rimaste schiave delle persone che le guidano. Le strade sono sempre appartenute alle persone, anche se si pensava che quelle persone avrebbero dovuto essere all’interno delle automobili. Quando questa relazione sarà rotta per sempre, e dappertutto, è probabile che le strade saranno più sicure, più pulite e più efficienti. Ma l’esperienza della vita urbana, specialmente in città come questa, cambierà per sempre.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato da The Atlantic.

This article was originally published on The Atlantic. Click here to view the original. © 2017. All rights reserved. Distributed by Tribune Content Agency.

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