29 ottobre 2020 09:50

È un paradosso enorme che alimenta inevitabilmente diversi interrogativi. La Cina, dove il sars-cov-2 è apparso per la prima volta quasi un anno fa, oggi è il principale paese del mondo a essere risparmiato dalla pandemia. La vita quotidiana, in Cina, è sostanzialmente normale. L’economia è ripartita al punto che quest’anno la Cina sarà l’unico paese del G20 a registrare una crescita, mentre tutti gli altri sono in recessione.

Diversamente da quanto accaduto all’inizio dell’anno, quando il governo cinese ha inizialmente nascosto l’epidemia a Wuhan e successivamente ha ritardato la mobilitazione internazionale, oggi non ci sono motivi per credere che Pechino stia nascondendo i casi di contagio. D’altronde il rischio di lasciare che megalopoli abitate da più di venti milioni di persone (come la capitale o Shanghai) vivano normalmente nonostante la minaccia di un’epidemia incontrollata sarebbe troppo grande.

I focolai che emergono periodicamente sono sottoposti a una terapia d’urto. È accaduto a Kashgar, nell’estremo occidente del paese, dove in tre giorni oltre quattro milioni di persone sono state sottoposte ai test. Resta il fatto che in Cina non esiste una seconda ondata né tantomeno una diffusione incontrollata del virus.

Senza dibattito
Qual è il segreto del metodo cinese? Puntare il dito contro l’autoritarismo cinese, che impone un controllo sociale estremo, sarebbe fin troppo semplice, ma almeno su due piani è corretto. Innanzitutto in Cina nessuno contesta le decisioni ufficiali, diversamente dall’Europa dove non mancano le polemiche e le manifestazioni di protesta.

In secondo luogo bisogna considerare l’uso illimitato della tecnologia da parte del governo, con applicazioni, codici QR, centralizzazione dei dati, tutti strumenti che erano già largamente usati dal regime per controllare la popolazione. Il covid-19 ha solo rafforzato questa tendenza, anche in questo caso senza la possibilità di un dibattito.

In gioco c’è la rottura del contratto sociale e un errore può costare la poltrona ai leader, anche se non eletti democraticamente

Ma come dicevamo l’autoritarismo non è una spiegazione sufficiente. Oggi lo stato cinese ha la capacità di mettere in atto le sue decisioni. È la differenza tra gli inizi dell’epidemia a Wuhan, con le zone d’ombra e i fallimenti, e l’azione centralizzata del partito a partire dalla fine di gennaio, che ha evidenziato tutta la potenza del governo.

La questione è ovunque politica, nelle democrazie come negli stati autoritari. La soluzione non arriva dalle elezioni o dai dibattiti mediatici. In gioco c’è la rottura del contratto sociale (o del mandato celeste, come lo definivano un tempo) e un errore può costare la poltrona ai leader, anche se non eletti democraticamente.

Ma bisogna considerare anche l’impatto geopolitico della pandemia. Di nuovo ci troviamo davanti a un paradosso: l’immagine internazionale della Cina è chiaramente intaccata, a causa della gestione iniziale dell’epidemia ma anche di una diplomazia molto aggressiva e del comportamento del governo nei confronti degli uiguri e della popolazione di Hong Kong.

Eppure la Cina si presenta come modello di gestione del covid-19, in contrasto con la catastrofe in atto negli Stati Uniti e in Europa. È un messaggio che evidentemente è destinato più alla popolazione cinese che al resto del mondo. Il “modello cinese” si sta comunque affermando, e i leader di Pechino vogliono credere che sia arrivato il loro momento. La nostra debolezza è sicuramente la loro forza.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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