29 novembre 2018 09:54

È trascorso esattamente un anno dalle dimissioni di Robert Mugabe ed è ancora difficile trovare i termini giusti per descrivere gli eventi drammatici che lo hanno costretto a lasciare il potere dopo quasi quarant’anni.

Non è stata una rivoluzione, nonostante le scene di migliaia di cittadini deliranti che manifestavano per la prima volta davanti al palazzo presidenziale di Harare, perché al centro dell’azione non c’è mai stato il popolo. I cittadini comuni sono stati invitati a partecipare solo dopo che i carri armati erano entrati in scena e Mugabe era stato messo sotto sequestro nella sua residenza di Blue roof, dove si trova ancora oggi.

Non si è trattato nemmeno di un colpo di stato, almeno stando a quanto dicono gli stessi generali. “Vogliamo fare assoluta chiarezza sul fatto che questo non è un colpo di stato militare”, aveva dichiarato il maggiore generale Sibusiso Moyo nel corso di una dichiarazione trasmessa dalla televisione all’inizio della crisi, nonostante il messaggio decisamente diverso inviato con la sua uniforme e con la sua stessa presenza negli studi dell’emittente televisiva nazionale.

Dichiarazioni complici
Di sicuro non si è trattato di una “transizione ordinata”, esito di chiacchiere cordiali tra Mugabe e i suoi generali, come avrebbe voluto farci credere l’Unione africana (Ua).

“È stato l’esito di un dialogo tra i leader del paese e il presidente, durante il quale i primi hanno convinto il secondo che forse alcune delle azioni intraprese, non solo da lui ma anche da chi gli stava intorno, non erano state un bene per il paese, e lui ha accettato di rassegnare spontaneamente le sue dimissioni”, ha dichiarato un ingenuo – o complice – Smail Chergui, il commissario per la pace e la sicurezza dell’Ua.

Nell’euforia del momento in pochi si sono resi conto che il nuovo presidente non era poi così diverso

Alla fin fine la terminologia non importa. Quello che importava, allora come oggi, è che per la prima volta in 37 anni, la notte del 21 novembre 2017 gli zimbabweani sono andati a dormire in un paese che non era governato da Robert Mugabe.
Nell’euforia del momento in pochi si sono resi conto che il nuovo presidente non era poi così diverso.

Emmerson Mnangagwa, il Coccodrillo, a lungo braccio destro e sicario di Mugabe, ha promesso che la sua amministrazione sarebbe stata diversa, meno corrotta e più efficiente, meno autoritaria e più trasparente. Quello era il nuovo Zimbabwe, diceva, con le braccia aperte agli affari.

Trucco smascherato
Per dimostrarlo, Mnangagwa ha fatto di tutto per convincere il resto del mondo che i vecchi coccodrilli possono cambiare pelle. Affascinava la cerchia diplomatica con la sua sciarpa variopinta e la sua parlantina adatta al mondo degli affari, nella speranza di attirare i miliardi di dollari necessari a salvare l’economia in bancarotta del paese. Per un po’ ha fatto il bravo con l’opposizione e ha permesso a Nelson Chamisa – che ha raccolto il mantello del defunto Morgan Tsvangirai in un’altra impietosa lotta di successione – di pronunciare i suoi discorsi commoventi in tutto il paese senza grandi impedimenti che andassero oltre un po’ di prevedibile intimidazione.

Con il trascorrere dei mesi però, il trucco applicato in fretta e furia da Mnangagwa ha iniziato a sbaffare e a dissolversi ed è stato chiaro a tutti che il nuovo presidente era di fatto modellato a immagine e somiglianza di Mugabe. Questo è stato ancora più evidente al momento delle elezioni generali che si sono tenute a luglio del 2018, segnate da pesanti irregolarità, da elettori fantasma che infestavano le liste elettorali, dalla programmazione del voto contro ogni convenzione per conferire a Mnangagwa un ruolo da protagonista. Naturalmente ha vinto lui.

Ancora più grave è stata la risposta dello stato alle furibonde proteste dell’opposizione per i risultati delle elezioni. In una democrazia come quella promessa da Mnangagwa, ai cittadini è permesso esprimere pacificamente il loro dissenso. In questo nuovo Zimbabwe però soldati e veicoli corazzati sono stati schierati nelle strade del centro di Harare per disperdere i sostenitori dell’opposizione con gas lacrimogeni e proiettili veri. Almeno sei manifestanti inermi sono stati uccisi. E sì, è stato Mnangagwa a ordinare alle truppe di entrare in scena, secondo la testimonianza resa sotto giuramento del suo capo della polizia.

Nel frattempo in tutto il paese i prezzi salgono e il denaro contante sta diventando sempre più scarso. Ci sono lunghe code ai bancomat e per l’acquisto di generi alimentari di base, e possono essere necessarie ore di attesa per fare il pieno di carburante. Alcuni negozi sono chiusi a tempo indeterminato. L’economia sembra essere in caduta libera e gli investitori stranieri che a quanto si diceva erano pronti a portare qui i loro miliardi devono ancora materializzarsi, a quanto pare poco convinti del fatto che l’amministrazione di Mnangagwa riuscirà a creare le condizioni necessarie a garantire loro dei profitti. Invece gli avvoltoi volano in cerchio sui minerali dello Zimbabwe, soprattutto sui suoi giacimenti di cromo, litio e diamanti. A quanto pare sono questi loschi uomini d’affari e governi equivoci ad avere più a cuore gli interessi dello Zimbabwe.

A un anno dall’inizio del suo governo, il pregio principale di Emmerson Mnangagwa continua a essere solo il fatto di non essere Robert Mugabe. Per molti zimbabweani, sfregiati da una vita trascorsa sotto il pugno di ferro sclerotico di un solo uomo, questo può ancora bastare. Ma per quanto tempo ancora?

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è stato pubblicato sul settimanale sudafricano Mail&Guardian.

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