**◆ **Nel saggio del 1951 che, nell’edizione Feltrinelli, introduce a I fiori del male , il filologo Eric Auerbach scrive di Baudelaire: “Che strano fenomeno: un profeta di sciagure che non si aspetta altra reazione dai suoi ascoltatori che ammirazione per il risultato artistico raggiunto”. Be’, strano o no, il fenomeno è tra i più diffusi. Si può tracciare il quadro più abominevole del mondo in cui si vive, si può raccontare l’essere umano come la bestia più ripugnante, si può consapevolmente far di tutto per dispiacere al proprio tempo – vedi Leopardi – e tuttavia desiderare – pretendere – che il proprio genio creativo sia riconosciuto e universalmente lodato. Può sembrare un comportamento ingenuo. Come? Programmaticamente non fai contento il pubblico e poi ti lagni perché ti scansa, lo disprezzi perché corre dietro ad autori più accattivanti? Dai grandi indagatori dell’orrore di malvivere si vorrebbe la coerenza della marginalità torvamente accettata, il rifiuto d’ogni onore. Invece no, e forse con buona ragione. La spietatezza dello sguardo sul mondo, su se stessi e sui propri simili non solo è uno sforzo emotivo non da poco ma si accompagna a una ricerca formale estenuante. Perché sorprendersi, dunque, se pur straziando i lettori, il poeta maledetto pretende che gli si dica bravo, vuole essere applaudito per il nuovo originalissimo brivido che gli ha procurato?
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Questo articolo è uscito sul numero 1372 di Internazionale, a pagina 12. Compra questo numero | Abbonati





