28 dicembre 2019 10:42

Continua il racconto di un viaggio intorno al mondo che ho di recente fatto con mio figlio.

Il Cile è l’ultima tappa del nostro viaggio intorno al mondo. Sarà anche la più breve: possiamo fermarci solo pochi giorni, e questo ci obbliga a fare scelte radicali per quanto riguarda i luoghi da visitare.

Il paese si snoda per 4.300 chilometri lungo la costa occidentale del Sudamerica, ed è largo, in media, meno di 200 chilometri: vuol dire che la varietà dei climi, dei paesaggi e dei luoghi è amplissima.

Noi atterriamo a Santiago, nella zona temperata. Ci fermiamo giusto un pomeriggio prima di volare 1.500 chilometri a nord, verso Calama. Da lì ci sposteremo a San Pedro, nel deserto di Atacama.

Al ritorno avremo il tempo necessario per vedere la capitale, ma questo non significa rinunciare a fare almeno un primo giro in centro, in cerca di qualche suggestione e di una scheda telefonica. Così, per entrare subito nel clima e anche perché non abbiamo pranzato, ci compriamo delle empanadas in un negozietto vicino all’albergo e cominciamo a camminare.

La prima cosa a colpirci sono le bandiere. La Estrella solitaria, la bandiera cilena, si vede dovunque: un fervore nazionalistico che sembra perfino esagerato. Quando chiediamo lumi, ci spiegano che per decreto governativo ogni edificio privato o pubblico del Cile ha l’obbligo di esporre la bandiera in occasione del 18 settembre, giorno dell’indipendenza, che però è già passato da un po’.

Anche nelle chiese? Beh, pare di sì, anche sull’altare maggiore della cattedrale.

Bandiere a Santiago, 2019. (Annamaria Testa)

Le strade sono affollate, i negozi lo sono meno. Procurarsi una scheda telefonica si rivela più complicato di quanto non sia stato in paesi notoriamente non semplici come la Russia e la Cina.

A Santiago le schede si comprano nei negozi di telefonia, ma si attivano in farmacia (tuttavia diverse farmacie espongono cartelli che dicono “qui non attiviamo schede telefoniche”). Alla fine, un’anima pia ci indica il baracchino di un anziano scorbutico che vende sigarette e che, pagando in contanti, potrebbe occuparsi del nostro telefono.

A questo punto la sfida diventa capire dov’è un Atm, un cajero automàtico, insomma un bancomat, e riuscire a trovarlo funzionante, e individuarlo semplicemente girando, domandando e ricevendo indicazioni contraddittorie, dato che – appunto – non abbiamo attivato la scheda e non possiamo connetterci a internet.

Finalmente capitiamo nel posto giusto solo perché c’è una coda che occupa mezzo marciapiede e che per questo colpisce la nostra attenzione.

In sostanza, per venirne a capo ci vogliono più di due ore. Ma intanto abbiamo preso contatto con diversi santiagheni e ci siamo visti una discreta porzione di centro.

Del Cile sappiamo quello che sanno tutti: che nel 1990 il paese è uscito da 17 anni di sanguinosa dittatura militare. Che, separato dal resto del continente dalla cordigliera andina, è “il più europeo dei paesi sudamericani”. Che l’economia è piuttosto fiorente, sostenuta dalle esportazioni minerarie (rame, ma anche platino, oro, molibdeno, litio) e da quelle agricole, a cominciare dal vino. Ma le miniere, che Salvador Allende aveva nazionalizzato, oggi sono per la maggior parte di proprietà privata, e spesso straniera.

Sappiamo che il Cile è un paese con un alto indice si sviluppo umano e precede in classifica tutti gli altri paesi dell’America Latina. Ma le disuguaglianze sono ancora molto accentuate, l’economia conserva una pesante impronta neoliberista e il coefficiente di Gini, che misura la concentrazione della ricchezza, è il più alto tra i paesi Ocse: l’1 per cento della popolazione detiene oltre un quarto della ricchezza nazionale, mentre il 50 per cento più povero ne detiene solo il 2 per cento.

Un acrobata a Santiago. Il filo è teso sul fiume Mapocho. (Annamaria Testa)

Ovviamente mentre giriamo per le strade di Santiago non abbiamo la minima percezione del fatto che, appena un paio di settimane dopo la nostra partenza, in quelle stesse strade si scatenerà un’enorme, rabbiosa rivolta popolare, con conseguente cruenta repressione poliziesca.

Camminando in centro, vediamo solo una quantità di persone vestite modestamente e percepiamo, al massimo, una certa sensazione di stanchezza, che stride con tutte quelle bandiere che sventolano dovunque.

Detto questo, ci sembra strano che non ci si possa neanche avvicinare al palazzo della Moneda perché l’intera piazza è, oltre che ampiamente presidiata dai carabineros, isolata da una fitta, invalicabile barriera di transenne di metallo.

All’imbarco sul volo per Calama ci sono pochi turisti, e molte più persone – uomini di tutte le età – vestite con abiti da lavoro. Portano con sé zaini o borse a mano, e qualcuno ha addirittura un casco da cantiere appeso allo zaino: sono minatori pendolari che si spostano da Santiago per andare a lavorare nel grande centro minerario del paese.

Il Cile è il primo produttore mondiale di rame e, nel Salar de Atacama, a oltre 2.300 metri di altezza, c’è quello che oggi è il terzo giacimento al mondo di raro, preziosissimo litio, fondamentale per le batterie di computer, cellulari e auto elettriche.

Ci spostiamo in auto da Calama verso San Pedro. La strada sale lentamente. Tutto intorno c’è solo una sconfinata distesa di polvere e pietre color cipria, bordata in estrema lontananza dai profili violazzurri delle montagne e dei vulcani.

Siamo in uno dei luoghi più aridi del pianeta: non piove praticamente mai e perfino su gran parte delle montagne circostanti, che pure sfiorano facilmente i seimila metri, nevica poco o niente.

Il suolo di un’area qui vicino, a sud di Antofagasta, è stato paragonato al suolo marziano: gli scienziati della Nasa ci vengono per testare le apparecchiature che useranno nelle future missioni su Marte.

San Pedro è poco più che un villaggio di neanche cinquemila abitanti. È costruito in un’oasi, e infatti c’è qualche albero polveroso. Le case sono fatte di mattoni di adobe: sabbia, paglia e argilla. Le strade sono sterrate.

Siamo a 2.400 metri. Non tanti da soffrire davvero l’altitudine, ma abbastanza per sentirsi la testa svuotata e per dormire male la prima notte. Anche a San Pedro: bandiere e bandiere e bandiere.

San Pedro è un buon posto per osservare il turismo nella sua condizione nascente. Le bancarelle e i negozi di souvenir sono già spuntati, piccole ma numerose agenzie offrono giri nel deserto di giorno, di notte, per vedere i geyser, i fenicotteri, la valle di Marte, le stelle. Fuori dal villaggio sono sorti un paio di alberghi costosi dove arriva qualche pullman di turisti e c’è perfino un grazioso ristorante che serve piatti di cucina Mapuche e promuove sapori e cultura amerinda. Ma per comprare da mangiare bisogna ancora infilarsi dentro antri bui traboccanti di merci accatastate, non tutte freschissime, in giro si vedono ancora molti ragazzi con lo zaino e perfino qualche hippy mio coetaneo o quasi. L’atmosfera è rilassata, sonnacchiosa e contemplativa.

Ci procuriamo una mappa: la stagione non è troppo calda e si può camminare. Compriamo acqua, empanadas, banane e ci spalmiamo di crema solare anche le orecchie. La Valle della Luna è vicinissima a San Pedro ed è il primo posto che andiamo a vedere. Procediamo lungo un sentiero in salita, poi su un crinale stretto fino a conquistare un panorama sterminato, e sì, lunare. Le strisce bianche che lo fanno sembrare innevato sono, in realtà, incrostazioni di sale.

Valle della Luna, deserto di Atacama, 2019. (Annamaria Testa)

Per entrare nella valle di Marte c’è da zigzagare lungo una pista sabbiosa che si snoda tra pareti di rocce rosse, bizzarramente arabescate dal vento. Vediamo un gruppo di ragazzi multicolori che si arrampicano lungo una ripidissima duna di sabbia, per poi scendere con qualcosa di molto simile a un surf. Ogni volta che si arriva abbastanza in alto, il paesaggio si apre sulla cerchia dei vulcani.

Deserto di Atacama, Valle di Marte. Sullo sfondo, il vulcano Licancabur. (Annamaria Testa)

L’aria del deserto è trasparente, l’inquinamento luminoso è scarso, l’umidità è zero: le stelle si vedono benissimo. Per questo nelle vicinanze ci sono tre osservatori astronomici internazionali (un quarto è in costruzione).

Così anche noi ci aggreghiamo a un gruppo che va a osservare la Via Lattea e dintorni. La notte è tersa, senza luna, il cielo è blu-nero, e si gela.

Ci mostrano la Croce del Sud, altre costellazioni, i pianeti, la galassia. Ma la cosa che più mi colpisce è vedere, nel telescopio, Saturno con i suoi anelli, netti come se fossero disegnati a china in un fumetto.

Ci muoviamo verso sud, in direzione delle lagune Cejar e Tebinquinche. La pista sterrata non è esattamente agevole. Il paesaggio è stilizzato: colori pallidi e riflessi. L’acqua è salatissima. Diverse persone fanno i bagno. Non è che si possa propriamente nuotare, ma si galleggia perfino di più che nel mar Morto.

La laguna Cejar, deserto di Atacama, 2019. (Annamaria Testa)

Scendiamo ancora verso la laguna Chaxa: la strada è deserta e si snoda dritta in un paesaggio fatto di polvere e pietre, segnato solo dalla sequanza infinita dei pali della luce che si perde all’orizzonte, contro il profilo dei vulcani. Poi, in mezzo al nulla, spunta un cartello con due moschetti incrociati su fondo verde, sostenuti dalla scritta Orden y patria. Lo slogan lanciato ai turisti e, immagino, ai locali, dice: Carabineros de Chile – un amigo siempre. Penso che ho visto, nella mia vita, slogan meno assertivi e più convincenti.

Nella laguna Chaxa si trovano molti fenicotteri rosa, meno rosa però di quelli che si si possono vedere, per esempio, in Florida. Ci spiegano che è perché qui mangiano gamberetti diversi. E poi forse tutto, in questo deserto di sale e colori pastello, diventa pallido. Clic, provo a fotografarli, ma sono troppo lontani e ci vorrebbe un teleobiettivo. Perfino il cellulare, però, cattura il carattere astratto del paesaggio, e una parte almeno del suo fascino.

La laguna Chaxa. (Annamaria Testa)

Raggiungiamo una piccola oasi, verdissima, nascosta in un’ampia spaccatura del suolo, accanto ai resti di un villaggio minerario abbandonato: gli edifici sono scoperchiati ma sui tavoli c’è ancora qualche pignatta. Nella vena d’acqua che scorre in fondo alla spaccatura sguazzano un paio di bambini. Sentiamo la voce di una donna che li chiama.

Un’oasi nel deserto di Atacama, 2019. (Annamaria Testa)

Andiamo a vedere la casa di Pablo Neruda non appena torniamo a Santiago. Si chiama La Chascona (l’arruffata), in onore della compagna Matilde Urrutia. Sono tre piccoli fabbricati su diversi livelli, costruiti attorno a un cortile verde e ombroso e uniti da scale. Vedo che mi figlio si guarda intorno interessato: sono felice che lo spirito del luogo, che resta vibrante e vitale, catturi anche lui.

Neruda muore pochi giorni dopo il colpo di stato di Pinochet, e la sua casa viene devastata per sfregio. Sarà la sua compagna a rimetterla in ordine, così come la vediamo oggi: un ulteriore gesto di cura e d’amore.

Un altro luogo della memoria si trova nel Barrio París-Londres: il quartiere, costruito ai primi del novecento a somiglianza del quartiere latino di Parigi, è piccolo (sono solo due strade che s’intersecano in un bell’incrocio alberato) e graziosissimo. Ma al numero 38/40 c’era una sede della Dina, la polizia segreta e torturatrice del regime.

Mio figlio e io ce ne stiamo un po’ lì, in silenzio, a leggere i nomi che stanno sulle pietre d’inciampo collocate davanti al portone. Le vittime, tutte giovanissime.

París-Londres, 38/40. (Annamaria Testa)

Vicino alla casa di Neruda c’è il barrio Bellavista, chiuso tra la parete frondosa del Cerro di San Cristóbal e la riva del fiume Mapocho, che nasce nelle Ande e attraversa la città. È un quartiere di case basse, colorate e decorate da murales, ed è zeppo di locali che si animano al tramonto. Adesso è un posto, temo, più turistico che bohémien, ma passeggiarci continua a essere molto piacevole, e molti murales meritano almeno uno sguardo.

Un murale nel quartiere Bellavista. (Annamaria Testa)

Girando in centro (siamo di nuovo dalle parti del palazzo della Moneda), a un certo punto sentiamo un grande strepito e ci precipitiamo a vedere di che si tratta. È una rumorosa, affollata processione. La risaliamo tutta.

Processione a Santiago. (Annamaria Testa)

Ci colpisce il fatto che tra i preti, i santi, le madonne, i crocifissi, le suore coi palloncini, le bambine in maglia bianca, i bambini suonatori, i paraplegici nelle carrozzelle, le infermiere, gli esponenti delle corporazioni in mantellina con le nappe, i fedeli con le bandiere, sfilino in file assai più ordinate delle altre una quantità di esponenti dei corpi militari. E non si capisce più tanto bene se è una processione, una parata o uno strano ibrido.

Processione a Santiago. (Annamaria Testa)

Per salutare Santiago andiamo a vedercela dall’alto. Il Cerro de San Cristòbal è uno dei parchi urbani più estesi al mondo: una intera collina dentro la città. Proviamo a salire con la funicolare ma è domenica e c’è una fila inaffrontabile. Quindi ci inerpichiamo seguendo alcune scorciatoie piuttosto ripide e tuttavia discretamente affollate: sono 300 metri di dislivello, 45 minuti circa di salita.

Sembra che tutta la gente di Santiago si sia riversata nel parco: le persone passeggiano, corrono, giocano, prendono il sole, si corteggiano, cucinano, chiacchierano, pregano. In cima alla collina ci sono un santuario e una grossa statua bianca della Madonna.

Ci concediamo un mote con huesillo: pesche disidratate cotte in acqua, zucchero caramellato e cannella, servite nel loro sciroppo e mescolate con grano grezzo bollito. Si consuma freddo, corrisponde più o meno a un intero pranzo e giuro che non è niente male.

Le altre tappe del viaggio:

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