08 luglio 2020 12:24

Sul banco dei testimoni, Hatice Cengiz non riesce a contenere le sue emozioni. Mentre racconta la sua relazione con il fidanzato Jamal Khashoggi, spesso è costretta a fermarsi. Trattenere le lacrime diventa ancora più difficile quando ricorda il giorno in cui il giornalista saudita ha trovato una morte atroce per mano di un commando di assassini, all’interno del consolato saudita di Istanbul.

In esilio negli Stati Uniti dall’estate del 2017 a causa delle sue posizioni avverse alla famiglia reale saudita e soprattutto al principe ereditario Mohammed bin Salman, Khashoggi andava regolarmente nella metropoli turca per incontrare la giovane dottoranda con cui progettava di sposarsi. È stato proprio il matrimonio imminente a spingerlo a visitare il consolato una prima volta, per chiedere un certificato che provasse il divorzio dalla precedente moglie, già sancito in Arabia Saudita.

Accolto con gentilezza dal personale del consolato, Khashoggi non si era insospettito quando lo avevano invitato a tornare una seconda volta per consegnargli il prezioso documento. L’appuntamento era stato fissato per il 2 ottobre 2018. Quel giorno Khashoggi non è mai uscito dal consolato. “Quella convocazione è stata un grande tradimento, un inganno. Accuso tutti i dipendenti del consolato, dal primo all’ultimo”, attacca Hatice Cengiz. La fidanzata del giornalista è il primo testimone a prendere la parola, in qualità di querelante, nel processo in contumacia contro venti sauditi cominciato il 3 luglio davanti all’undicesima corte d’assise di Istanbul. Secondo l’accusa, presentata dalla procura sulla base di una serie di intercettazioni telefoniche, video registrati dalle telecamere di sorveglianza, perquisizioni e testimonianze di dipendenti turchi del consolato, il collaboratore del Washington Post è stato strangolato e poi fatto a pezzi da un gruppo di quindici persone (tra cui un medico legale) provenienti dall’Arabia Saudita.

Mohammed bin Salman non è stato formalmente accusato dalla procura di Istanbul, ma il suo nome è subito emerso durante le deposizioni

I procuratori turchi accusano diciotto presunti esecutori di “omicidio premeditato e aggravato dalla crudeltà”, ma soprattutto indicano due collaboratori del principe ereditario – l’ex consigliere di corte Saud al Qahtani e l’ex capo aggiunto dei servizi segreti, il generale Ahmed al Assiri – come organizzatori e istigatori dell’omicidio. I crimini di cui sono accusati prevedono l’ergastolo senza possibilità di riduzione della pena.

Mohammed bin Salman non è stato formalmente accusato dalla procura di Istanbul, ma il suo nome è subito emerso durante le deposizioni. Yasin Aktay, consigliere del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e amico di Khashoggi, ha parlato della collera del principe saudita per le critiche rivolte dal giornalista alla sua politica di intervento militare in Yemen e all’embargo imposto al Qatar.

“Khashoggi era anche il presidente di un’associazione chiamata Democrazia subito per il mondo arabo (Dawn). Gli attivisti dell’associazione avevano irritato i vertici sauditi. Per loro la parola democrazia è un insulto”, ha raccontato Aktay davanti ai giudici.

Fondata nel 2018 da Khashoggi, Dawn riunisce intellettuali, militanti e lobbisti che rappresentano le correnti islamiche e liberali a sostegno della democrazia.

Altri sette testimoni, soprattutto dipendenti turchi del consolato saudita, si sono alternati alla sbarra nel corso di un’udienza durata tre ore e mezza. Uno di loro potrebbe aver fornito un indizio decisivo sul cadavere della vittima, mai ritrovato.

“Il giorno in cui si sono svolti i fatti sono stato chiamato alle due del pomeriggio nella residenza del console. Mi hanno chiesto di accendere il forno. Ero nel panico, non riuscivo a respirare. Era chiaro che non volevano che restassi. Ho acceso il forno e sono andato via”, ha dichiarato il tecnico Zeki Demir. “Quando sono tornato, cinque o sei giorni dopo, ho visto che il marmo del forno era spaccato. Anche il colore era diverso, come se fosse stato passato al vetriolo”.

La catena di comando
Dopo aver ascoltato i testimoni, che hanno rilasciato le loro deposizioni indossando una mascherina davanti a un pubblico ristretto a causa dell’epidemia di covid-19, i giudici hanno fissato per il 24 novembre la data della prossima udienza. L’unico osservatore straniero presente, la relatrice speciale delle Nazioni Unite per le esecuzioni sommarie, Agnès Callamard, ha manifestato la propria soddisfazione per l’apertura di un processo che “pur imperfetto, costituisce un atto di giustizia” per rimediare alla farsa del processo organizzato l’anno scorso in Arabia Saudita.

A dicembre la giustizia saudita ha condannato cinque esecutori dell’omicidio alla pena di morte, e altri tre a ventiquattro anni di carcere. Ma i tribunali sauditi si sono ben guardati dal tirare in ballo gli organizzatori, e hanno garantito che il commando era stato inviato in Turchia esclusivamente per riportare Khashoggi a Riyadh, incolume. L’esecuzione del giornalista, secondo questa tesi, sarebbe stata decisa autonomamente dal capo della spedizione. Successivamente i figli del giornalista, che vivono ancora in Arabia Saudita, hanno concesso il perdono agli assassini del padre che, secondo Callamard, sono sfuggiti all’esecuzione e restano in prigione in attesa di un’eventuale scarcerazione.

Il rapporto pubblicato nel 2019 da Callamard parlava di “prove credibili” della responsabilità di “funzionari sauditi di alto livello, tra cui il principe ereditario”. Intervistata da Mediapart, la relatrice speciale ha manifestato la speranza che nel corso delle prossime udienze il procuratore turco possa “presentare le prove scientifiche ottenute analizzando i telefoni e i computer”. “Spero che possa descrivere la catena di comando e portare elementi probatori, anche se il principe non dovesse essere incriminato”. A proposito delle “imperfezioni” del processo turco, Callamard ha sottolineato l’assenza degli accusati, colpiti da mandati d’arresto internazionali. Alla fine del 2018 l’Arabia Saudita ha comunicato che non avrebbe mai acconsentito all’estradizione. L’assenza degli imputati potrebbe impedire qualsiasi condanna, perché in base al diritto turco i processi in contumacia non possono arrivare al verdetto, come confermano diversi giuristi turchi. Callamard ha anche sottolineato la totale mancanza di contatti tra gli avvocati della difesa, assegnati d’ufficio, e i loro clienti.

Reporter senza frontiere ha invece condannato l’assenza di rappresentanti delle cancellerie occidentali. “È inaccettabile che i corpi diplomatici ignorino un processo che potrebbe rappresentare l’unica occasione per fare giustizia per la morte di Jamal Khashoggi”, ha scritto su Twitter Rebecca Vincent, direttrice delle campagne internazionali dell’organizzazione. “Reporter senza frontiere ha chiesto a trentacinque stati che fanno parte della Coalizione per la libertà d’espressione di inviare i propri osservatori”.

“Parliamo di un omicidio di stato, ed è per questo che la presenza dei governi è importante”, ha confermato Callamard. “Bisogna trasmettere all’Arabia Saudita e al mondo un messaggio chiaro: non si possono uccidere impunemente i giornalisti”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato sul sito Mediapart.

Leggi anche

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it