22 maggio 2020 10:02

Il regime cinese è sotto pressione, e come sempre in momenti del genere si chiude e si indurisce. Il 21 maggio la Cina ha voluto dimostrare che non intende lasciarsi intimidire dall’escalation verbale di Donald Trump, e l’ha fatto annunciando una legge contro le minacce alla sicurezza nazionale fatta su misura per Hong Kong, territorio teoricamente autonomo. Una vera provocazione.

L’annuncio è arrivato durante la prima giornata di riunione delle due assemblee parlamentari cinesi, un grande spettacolo annuale che tradizionalmente indica la rotta politica del paese e mobilita i quadri del Partito comunista. Quest’anno la sessione aveva un sapore particolare a causa del virus, che ne ha ritardato la convocazione di tre mesi e ha costretto i partecipanti a indossare mascherine protettive, fatta eccezione per i componenti del Politburo.

Hong Kong è una spina nel fianco di Pechino fin dal 2019, quando è nata la protesta degli attivisti democratici. Da allora il movimento è sfociato in una serie di scontri con la polizia, ma questo non ha impedito ai giovani manifestanti di ottenere una spettacolare vittoria alle elezioni locali di novembre, che hanno segnato la sconfitta di Pechino.

Ridurre al silenzio
La legge annunciata il 21 maggio dal Partito comunista è doppiamente significativa. Prima di tutto nella forma: la comunicazione, infatti, è arrivata da Pechino, non dall’assemblea di Hong Kong come prevederebbe l’autonomia promessa per cinquant’anni nel 1997, al momento del ritorno del territorio nell’orbita cinese dopo il mandato britannico. Il principio “un paese, due sistemi”, su cui si basava la “restituzione” alla Cina, è diventato ormai fittizio, tanto che gli abitanti di Hong Kong ironizzano parlando di “un paese, un sistema”.

La legge è inoltre carica di minacce per i militanti filodemocratici di Hong Kong. In nome della sicurezza nazionale, un concetto estremamente ampio e interpretabile, il decreto permetterà di ridurre al silenzio i giovani dissidenti, a cominciare da quelli che osano chiedere l’indipendenza di Hong Kong, una corrente minoritaria ma insopportabile per Pechino.

Le proteste internazionali non mancheranno, ma non avranno un grande effetto nel clima attuale

Finora Hong Kong era l’unica area del territorio cinese a beneficiare di libertà impensabili nel resto della Cina, come la libertà di stampa, la libertà di manifestare e la libertà di associazione. Ora questi princìpi rischiano di essere gravemente compromessi, come dimostra il divieto di organizzare il tradizionale raduno del 4 giugno per commemorare il massacro di piazza Tiananmen, imposto dalle autorità con la giustificazione del covid-19.

Le proteste internazionali non mancheranno, ma non avranno un grande effetto nel clima estremamente teso di cui parliamo quasi ogni giorno. Gli Stati Uniti ne approfitteranno per criticare il regime cinese, ma lo fanno già da settimane a proposito della pandemia.

A quanto pare Pechino pensa di non poter recuperare il rapporto con Washington, almeno fino alle elezioni presidenziali di novembre e molto probabilmente anche dopo, a prescindere dal vincitore. La comunicazione ufficiale di Pechino, che risponde colpo su colpo all’amministrazione Trump, dimostra continuamente che il governo non ha alcuna fiducia nella possibilità di abbassare i toni.

La Cina, insomma, si prepara a un nuovo tipo di guerra fredda, in cui la democrazia di Hong Kong rischia di essere la prima vittima.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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