Quanto ci mettono delle interferenze linguistiche a diventare arte? Quando si parla di autori e di autrici bilingue o polifonici, di auto-traduzione e di chi si è innamorato di una lingua altra provando ad affondarci dentro con tutto l’impeto del suo cuore imbastardito, i nomi che ricorrono sono Cesare Pavese, Curzio Malaparte, forse perfino Cristina Campo con lo pseudonimo di Alexia Mitchell, poeta di origini un po’ italiane e un po’ scozzesi che sta dietro al misterioso Banchetto nel deserto e che Campo, andando di falso nome in falso nome, si dice abbia scritto e tradotto da sé. Quando si tratta di musica, una delle cose più vicine ai pastiche linguistici di chi sbanda tra vocabolari diversi sta nel canzoniere di Franco Battiato, che nei suoi versi faceva dei salti di specie.

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Sienteme, it’s time to land di Alan Sorrenti non appartiene a questo tipo di ricerca se non nel titolo, che promette un modo di scrivere senza poi mantenerlo. Anche se si tratta di un disco classicamente bilingue – per quanto impari: la metà gallese di Sorrenti canta quasi tutto in inglese, salvo il brano Sienteme che è in napoletano ed è davvero una canzone da riscoprire, madre inconsapevole di tanto nu soul urbano che spunta fuori da quelle parti – basta il titolo a spalancare una serie di ipotesi su cosa avrebbe tirato fuori Sorrenti se si fosse abbandonato ancora di più. Registrato a San Francisco nel 1976, Sienteme, it’s time to land è il classico disco che potrebbe venire in mente quando si pensa alla timidezza di chi vorrebbe scegliere più versioni di sé, ma alla fine molla. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1454 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati