C’è qualcosa di rivelatorio nel modo in cui i mezzi d’informazione generalisti, che di solito non si occupano di musica e controcultura, si avvicinano a un tema quando diventa inevitabile. Non lo fanno per celebrarlo, ma per evidenziare una violazione dell’ordine costituito: incidenti, strutture che cedono, oltraggio alla morale e così via.

È successo in questi giorni con il rave di Modena, e a essere rivelatoria è la controspinta di chi, nel tentativo di difendere eventi dirompenti come i rave, ricorre al ritornello “sono bravi ragazzi”: in fondo hanno pulito l’area, se ne sono andati pacificamente, volevano solo ballare. Questo atteggiamento è il sintomo di un desiderio più esteso, e cioè che il divertimento, il godimento della musica e di quello che succede al corpo e alla coscienza profonda nei rave o nei festival possano essere difesi in funzione del fatto che i partecipanti si comportano bene.

È un’aspettativa un po’ mastodontica da concentrare su chi va a ballare o vuole ascoltare musica in immersione profonda in contesti lontani dal quotidiano, perché presuppone una specie di selezione basata su requisiti morali, una selezione che non avviene in quasi nessun ambito delle aggregazioni umane.

I rave sono portali, ma non conducono solo all’apocalisse o all’estasi divina: raccontarli come se fossero popolati da zombie è reazionario, ma anche aspettarsi che siano frequentati solo da angeli e unicorni in armonia con l’ambiente è insidioso e in linea con chi vuole tenere fuori certi desideri, per loro natura liberi e “mostruosi”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1485 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati