A proposito di apprezzamento dei dischi italiani all’estero, Canti di guerra, di lavoro e d’amore di Silvia Tarozzi e Deborah Walker è stato segnalato nelle classifiche di fine anno di The Quietus e The Wire. L’elenco di The Quietus merita di essere percorso in tutta la sua lunghezza, perché se ne trae una specie di linea narrativa: abbondano i dischi acidi e pastorali, impiantati su zufoli, cornamuse e canti distrutti dal lavoro, storie orali trasmesse in rifugi temporanei fuori dalla città, dove ricordi e voci prendono fuoco annerendosi ai bordi. La critica musicale marxista farà presto dei collegamenti sulla sostenibilità della “musica urbana” nel senso di musica scritta e registrata in città alla luce del caro affitti, e della possibilità di esistere in questi ambienti.

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Nell’elenco non ci sarebbe stato male Alto/Piano di Everest Magma, ma intanto è bene trovare il disco di Silvia Tarozzi, che nel 2020 con Mi specchio e rifletto aveva già fatto un bel lavoro di trasfigurazione legato alle parole di Alda Merini. Questa volta Tarozzi e Walker tornano all’infanzia nell’Emilia rurale e decidono di tradurre (è di questo che si tratta) ritornelli popolari, cori delle mondine e frammenti di lessico sociale dedicati a lavoratrici e persone senza scuola in composizioni ariose e inquiete in cui prevale la scarnificazione della memoria. In tempi in cui il ricordo del passato sovrabbonda di musei e celebrazioni ritualizzate preoccupate dall’idea che tutto deve essere messo in filologia per essere salvo, Tarozzi e Walker scrivono magnifiche fiabe ipnotiche (Fa la nana) dal suono mistico e nuovo, e salvano quello che c’è da salvare così: inventando. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1498 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati