In un’intervista su Harper’s Bazaar ho scoperto che Taylor Russell, l’indimenticabile cannibale di Bones and all di Luca Guadagnino, durante il lockdown ha scelto di suonare l’arpa, uno strumento che poteva far impazzire i vicini. Uno strumento che deve portarsi dietro in viaggio ed è molto delicato, e le corde possono spezzarsi. Spesso, nella grande epica su performer e interpreti della musica classica, si vede la musicista ferita dallo strumento, assalita dalla macchina che l’attacca: dita che sanguinano, muscoli a pezzi, un corpo consegnato al suono. E si pensa meno alle ferite dello strumento. Che è sensibile, certo, ma non soccombe mai alla sua vulnerabilità se non per obsolescenza.

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C’è un disco straordinario, il primo di una trilogia, che aiuta a ripensare il rapporto tra strumento e tempo, corpo, fragilità e orrore: THE HARP, Chapter I dell’arpista Kety Fusco, uscito per Floating Notes Records e composto insieme ad Alessio Sabella (è stato presentato in anteprima alla Royal Albert hall di Londra). In un’unica traccia da 19 minuti, Fusco manipola un’arpa classica, un’arpa di legno dal peso di ottanta chili e un’arpa elettrica in carbonio: attraverso una successione di materiali legati a un immaginario specifico della vita culturale e umana, compie un viaggio ininterrotto ma pieno di transizioni per tirare fuori suoni che confondono le aspettative su cosa è classico e cosa non lo è, su cosa è futurista e cosa non lo è, in un mondo sonoro in cui budello e nylon possono convivere nella stessa macchina, arrivando a una specie di elegantissimo steampunk. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1503 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati