Aspettavo da un po’ di vedere Mahmood dal vivo, e l’idea che mi ero fatta attraverso le sue apparizioni televisive e i tentativi di un half-time show sanremese ha trovato conferma al Palazzo dello sport di Roma. Tutte le cose che si dicono su di lui con l’orgoglio di una zia del dopoguerra che vede il nipote andare all’università sono vere: ormai è un artista internazionale, potrebbe esibirsi ai Grammy e dopo il baffo e il pizzetto in quota Bad Bunny esibito in queste date è ragionevole aspettarsi una maggiore declinazione ispanofona nel suo futuro (non a caso durante un’interazione con dei fan peruviani ha cercato di mostrare la sua vicinanza con quella parte di mondo).
Per il resto il rave teatrale che apre e chiude lo show, lasciando spazio a momenti più intimisti in cui appare come un miliziano religioso del deserto che evoca pokemon e uramaki, sarebbe inimmaginabile senza un corpo di ballo tutto al maschile con cui Mahmood condivide una muscolarità da campetto della scuola (appaiono altalene sadomaso per Neve sulle Jordan, uno dei brani migliori) che si trasforma in un’ipotesi di riformatorio (passamontagna glitterati, ballerini che si muovono con agilità) fino a diventare una warehouse di Bushwick, suscitando in mia nipote di otto anni che era con me la sensazione di avere “la batteria nel cuore”. È una mascolinità fluida ed esasperata allo stesso tempo, alla Challengers di Guadagnino, che fa fare un salto ai brani accompagnati dai ballerini. Tra un po’ di tempo, lo show reggerà anche senza il melodramma. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1615 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati