I risultati delle elezioni del 9 agosto in Kenya possono prestarsi a una lettura pessimistica. In caso di parere favorevole della corte suprema, il paese eleggerà alla carica di presidente William Ruto. Insieme al presidente uscente Uhuru Kenyatta, nel 2012 Ruto è stato accusato di crimini contro l’umanità davanti alla Corte penale internazionale (Cpi). Alla fine il processo è stato annullato, ma è considerato da molti keniani, compresi alcuni suoi sostenitori, uno dei personaggi più corrotti del paese. Raila Odinga, che ha perso le elezioni con un margine molto ridotto, ha contestato i risultati. Anche Odinga però ha affrontato accuse di corruzione. Nel frattempo una decina di persone elette in parlamento o che ricoprono incarichi nel governo uscente devono difendersi in alcuni tribunali locali da accuse gravi, che vanno dall’omicidio alla truffa. “Cosa dovremmo fare quando il sistema continua a far emergere candidati che non suscitano alcun entusiasmo?”, si chiedeva l’analista politica keniana Nanjala Nyabola in un articolo uscito di recente su The Nation. Nel contesto keniano l’espressione “che non suscitano entusiasmo” è un eufemismo per indicare assassini, bugiardi e opportunisti disposti a fare di tutto per il potere.

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Naturalmente non succede solo in Kenya. Anche prima dell’attuale ondata di populismo di destra che ha portato al potere Viktor Orbán in Ungheria, Donald Trump negli Stati Uniti e Jair Bolsonaro in Brasile, le elezioni nelle cosiddette democrazie mature hanno spesso dato potere a persone discutibili. Pensiamo ai tanti presidenti degli Stati Uniti che hanno scatenato guerre in cui migliaia di persone innocenti sono state uccise o ai primi ministri israeliani che hanno guidato un sistema di apartheid. Oppure ai governi eletti in Francia e Regno Unito che in passato furono responsabili di genocidi coloniali.

Le libertà conquistate hanno resistito ai tentativi di reprimerle. Questo la dice lunga sulla resistenza dei keniani, molto più della loro scelta dei candidati alle elezioni

Aspettarsi che un voto democratico consegni il potere a governanti bravi è sbagliato, così come dare la colpa a un malfunzionamento del sistema quando questo non succede. Preferisco pensare che anche i candidati peggiori servano a mettere alla prova i sistemi democratici. Nel corso della storia molti intellettuali sono stati scettici sulle elezioni e sulla capacità delle persone comuni di scegliere bene alle urne. Ma non è questo il valore della democrazia che, invece di essere un sistema per selezionare chi va al potere, dovrebbe rendere le persone capaci di governarsi da sole: un “governo del popolo, dal popolo e per il popolo”, per dirla con le parole di Abraham Lincoln. In questo senso quello che succede tra un voto e l’altro è più importante del risultato elettorale. In un vero sistema democratico la capacità dei cittadini di partecipare alle decisioni di tutti i giorni e di chiedere conto alle istituzioni non dovrebbe dipendere solo da come hanno votato.

Nella mia vita ho assistito alla trasformazione del Kenya da un paese con una società chiusa, in cui dissentire era pericoloso, a uno con una società in cui il dissenso è diventato normale. Oggi scrittrici come Nyabola possono pubblicare articoli senza temere le ripercussioni che gli altri autori si sarebbero aspettati trent’anni fa, anche se cose del genere succedono ancora. Il direttore del Sunday Nation, Denis Galava, è stato licenziato dopo aver firmato un feroce editoriale sui fallimenti del regime di Kenyatta. Ma, rispetto al passato, una condotta così vergognosa delle autorità è diventata rara. Non è successo eleggendo governanti migliori, ma grazie a decenni di lotte per cambiare la cultura politica e le regole dopo la dittatura di Daniel arap Moi. Il fatto che queste libertà, conquistate con difficoltà, abbiano resistito ai tentativi di reprimerle, la dice lunga sulla resilienza dei keniani molto più della capacità di scegliere buoni candidati alle elezioni.

Questo non vuol dire che le scelte elettorali non hanno importanza. Ce l’hanno eccome. Candidati impegnati a difendere le libertà e a migliorare la vita delle persone renderebbero molto più semplice il funzionamento della democrazia. Ma sessant’anni di elezioni regolari in Kenya hanno prodotto ben pochi candidati di questo tipo. Anche i rari volti nuovi e le persone con una lunga storia di attivismo quando sono arrivate al potere si sono trasformate negli stessi ladri autoritari contro cui avevano lottato in passato. In fin dei conti, a contare di più è l’impegno quotidiano in difesa della democrazia.

I keniani vivranno tempi difficili ma, a prescindere dall’esito delle proteste contro i risultati delle elezioni, c’è un motivo per essere ottimisti. Nonostante i candidati problematici negli ultimi due cicli elettorali, abbiamo fatto passi in avanti nella capacità di gestire il voto in modo trasparente. Cosa ancora più importante, dobbiamo capire che il lavoro della democrazia non finisce mai e che ora è il momento di prepararsi per un’altra lunga stagione di costruzione delle istituzioni, che andranno difese dalle scelte appena compiute nelle urne. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1476 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati