In questi giorni mi considero una tartaruga in un mondo di efemere, quegli insetti dalla vita brevissima. Mi sforzo di vedere da dove vengono i cambiamenti che stiamo vivendo. Ci vuole tempo per vedere un cambiamento, ma la sua comprensione è essenziale per capire la politica e la cultura. Una visione a breve termine genera incomprensione ed è inefficace. Gli eventi, come gli esseri viventi, hanno genealogie ed evoluzioni. Seguendoli in tempo reale o nella documentazione storica si può spesso notare il potere che emerge dal basso, e le idee che si spostano dai margini al centro della scena. Così si può capire come funziona ogni cosa. Eppure di queste traiettorie e genealogie spesso non si parla nei notiziari e nelle conversazioni tra le persone.

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Quando il tuo orizzonte temporale è più breve di quello in cui avviene il cambiamento, non riesci a vederlo. Non molto tempo fa le persone mi dicevano che il femminismo aveva fallito, forse perché erano incapaci di riconoscere gli straordinari passi avanti fatti dalle donne negli ultimi cinquant’anni o forse perché ritenevano che smantellare millenni di patriarcato fosse un compito semplice, che si sarebbe dovuto concludere in pochi decenni. La verità è che abbiamo appena cominciato.

Gli attivisti di Occupy Wall street hanno reso il debito degli studenti statunitensi una questione pubblica e in seguito una parte del programma del presidente Joe Biden

L’oblio è ovunque. Prendiamo per esempio l’annuncio dello scorso agosto da parte dell’amministrazione Biden di una riforma che prevede l’alleggerimento dei debiti accumulati dagli studenti statunitensi per laurearsi all’università. Chi non ha seguito la vicenda avrebbe potuto pensare che si trattava di una concessione arrivata dall’alto e non di una conquista frutto di una lunga lotta dal basso. Chi l’ha seguita meglio invece si sarà ricordato di come il debito studentesco fosse una delle questioni al centro delle proteste del movimento Occupy Wall street a New York nel 2011. Dando voce alle persone schiacciate dal debito e denunciando un sistema oppressivo, il movimento ha indirizzato il dibattito a livello nazionale. Eppure subito dopo la sua nascita, quando nel novembre 2011 gli attivisti riuniti a Zuccotti park, a New York, erano stati dispersi con la forza dalla polizia, molti opinionisti avevano dichiarato la fine del movimento. Ma l’impatto di Occupy in realtà era appena cominciato. Ha ispirato altre manifestazioni negli Stati Uniti e all’estero. In tutto il paese sono nati gruppi che lottavano contro la violenza della polizia, organizzazioni di solidarietà con le vittime dei pignoramenti, di sostegno ai senzatetto e molti altri progetti e movimenti.

Uno era il Debt collective. Fondato nel 2012, ha lottato contro varie forme di debito – per pagare affitti o mutui, per curarsi o per studiare – chiedendone la cancellazione, pretendendo delle riforme e attirando l’attenzione pubblica sulla crudeltà del sistema statunitense. Tre anni dopo, nel 2015, il Debt collective ha annunciato che il suo sciopero aveva dato il via a “una campagna che ha contribuito a ottenere modifiche alla legge federale e una cancellazione del debito studentesco per più di due miliardi di dollari”. Gli attivisti hanno reso il debito studentesco una questione pubblica e in seguito sono riusciti a farlo diventare una parte del programma della campagna elettorale di Biden. Il tutto ha portato alle riforme di agosto.

L’anno in cui il Debt collective ha cominciato la sua campagna, la corte suprema ha riconosciuto il diritto delle coppie gay a sposarsi. Un atteggiamento da efemera avrebbe spinto a vedere quella conquista come un diritto calato dall’alto dai giudici statunitensi e non come il risultato di un processo costruito dal basso. Ma la corte ha semplicemente dato valore legale a una serie di battaglie di lungo periodo che hanno alimentato cambiamenti più grandi, come il sostegno ai diritti delle persone queer. E per capire la portata di questi cambiamenti è necessario anche ricordarsi di come stavano prima le cose.

Nel 1815, all’inizio della storia degli Stati Uniti, John Adams scrisse a Thomas Jefferson che la guerra per l’indipendenza dalla corona britannica non era la vera rivoluzione: “La rivoluzione era nelle menti del popolo e fu realizzata dal 1760 al 1775, prima ancora che una sola goccia di sangue fosse versata a Lexington”. Questo vuol dire che il cambiamento era arrivato attraverso la cultura, le idee e i valori. E che il territorio più importante da conquistare è quello dell’immaginazione. Una volta creata una nuova idea di quello che è possibile, i semi sono piantati; una volta che la maggioranza comincia a credere a quell’idea, si creano le condizioni per vincere. È forse la parte meno tangibile, ma più importante, di una battaglia politica. Le idee sono potenti e pericolose. I loro nemici lo sanno e tutti gli altri spesso se lo dimenticano.

I grandi cambiamenti della nostra epoca su temi come il genere, l’ambiente e il razzismo sono stati graduali e in gran parte culturali, anche se poi hanno prodotto leggi e riforme

Una delle gioie di essere una tartaruga è osservare il lento viaggio delle idee dai margini al centro della scena. Vedere quello che era invisibile, e poi considerato impossibile, diventare ampiamente accettato. Il 28 agosto negli Stati Uniti i giornalisti del Salt Lake City Tribune hanno chiesto di prosciugare il lago Powell, un bacino idrico ormai in rovina creato sessant’anni fa dalla diga di Glen Canyon, per trasformare le sue gole in un parco nazionale. Un’idea considerata assurda appena vent’anni fa. La città di Oakland ha appena annunciato l’intenzione di restituire due ettari di terreni alla popolazione ohlone, un gesto di portata modesta ma un segnale enorme per i diritti dei nativi americani. Lo stesso Barack Obama ha twittato a sostegno della riduzione del debito studentesco, una misura che non aveva appoggiato quando era presidente.

Se è vero che le persone sono miopi sul passato, lo sono anche sul futuro: molti si sono lamentati della riforma dei prestiti studenteschi, dicendo che è incompleta. E il Debt collective ha assicurato che il suo lavoro non è finito. Tra le cose che scompaiono nella visione a breve termine c’è il fatto che quasi tutti i cambiamenti sono graduali e che anche una vittoria di solito è preceduta da tappe intermedie. Per quanto imperfetti e frustranti possano essere queste tappe, possono comunque condurci alla meta. Non possiamo raggiungere la vetta senza scalare la montagna.

I mezzi d’informazione però raccontano gli eventi come rotture improvvise invece di conseguenze di processi a lungo termine. Forse questo deriva anche dal loro attaccamento all’idea di rivoluzione. Ma i grandi cambiamenti della nostra epoca su temi come il genere, l’ambiente, il razzismo e altri sono stati graduali e in gran parte culturali, anche se poi hanno prodotto risultati concreti come leggi, riforme politiche e finanziarie. La verità è che tutto ha una storia e niente è completamente nuovo.

Sono stata testimone del cambiamento e a volte vi ho partecipato direttamente. Ho visto persone incapaci di vederlo o di crederlo possibile, che hanno rinunciato troppo presto o che, proprio per mancanza di prospettiva, ostacolavano chi provava a cambiare le cose. Per come la vedo io, la visione da efemera percepisce un presente perpetuo in cui l’ordine delle cose è immutabile. In questo senso Martin Luther King ha pronunciato una frase memorabile: “L’arco dell’universo morale è lungo, ma si piega verso la giustizia”. Si può discutere su come si pieghi – di sicuro negli ultimi tempi l’abbiamo visto piegarsi in altri modi – e sul modo in cui si può indirizzare. Ma comunque si piega.

I conservatori statunitensi possiedono una strategia a lungo termine, la capacità di costruire il loro potere dalle fondamenta, il controllo delle amministrazioni locali e hanno vinto elezioni statali che gli hanno permesso di modificare a loro vantaggio le circoscrizioni elettorali: hanno ottenuto il potere pur essendo minoranza nel governo federale e hanno trasformato la democrazia in qualcosa di meno nobile. Fortunatamente non sono gli unici ad avere tenacia.

Gli esempi sono ovunque. Nel 2020, dopo 31 anni di battaglie, la coalizione che riuniva allevatori, nativi del Nevada e altre popolazioni rurali, nota come ­Great Basin water network, ha sconfitto il tentativo della città di Las Vegas di estrarre acqua da uno dei luoghi più aridi del continente. Il piano avrebbe devastato la fauna selvatica e le comunità rurali locali. Non ci è voluta un’eternità, ma alcuni decenni sì. Per gran parte di questo tempo sarebbe stato facile dire che era inutile lottare, solo perché la vittoria non era arrivata subito.

Si potrebbe fare la stessa osservazione su molte altre battaglie, come quella del movimento studentesco dell’università di Harvard per il disinvestimento dai combustibili fossili, che ha impiegato dieci anni per raggiungere il suo scopo nel 2021. Come mi ha detto la mia amica Astra Taylor del Debt collective, quando mi sono congratulata con lei: “Siamo tutti perdenti finché non vinciamo”.

Un altro mio amico, Joe Lamb, è un poeta e arborista che porta una maglietta con la scritta: “Per un albero settant’anni sono pochi”. In un recente saggio sul programma di piantumazione di alberi previsto dal new deal di Roosevelt per fermare l’erosione che provocò la cosiddetta dust bowl (la serie di tempeste di sabbia che colpirono gli Stati Uniti tra 1931 e 1939, lasciando mezzo milione di persone senza casa), Lamb ha scritto: “Possiamo imparare dai successi del nostro passato e ripeterli”. È una splendida rivisitazione del vecchio adagio secondo cui “chi dimentica la storia è destinato a ripeterla”.

Ci sono vittorie passate che vogliamo ripetere, dalle quali vogliamo partire o imparare. Per questo è fondamentale capire come sono avvenute, ricordandoci che una quercia una volta era una ghianda e poi un alberello. E che una legge è stata prima un’idea radicale e poi una battaglia politica. Questo significa vedere il mondo come una tartaruga e non come un’efemera. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1479 di Internazionale, a pagina 41. Compra questo numero | Abbonati