03 gennaio 2018 13:08

È una fatalità che i liberatori di un tempo facciano propri, una volta ottenuto il potere, tutti i vizi che denunciavano in passato, come la corruzione, il nepotismo e anche l’autoritarismo che avevano energicamente combattuto? Questa domanda è universale, ma si pone in maniera particolare in Africa australe, dove Sudafrica, Angola e Zimbabwe vivono dei cambiamenti politici significativi.

Quasi tutti i paesi della regione, a lungo roccaforti di poteri bianchi razzisti e repressivi, sono oggi guidati dagli ex movimenti di liberazione, dopo anni di lotta clandestina, di privazioni e di sofferenze. La loro vittoria – negli anni settanta, ottanta o novanta a seconda del paese – appariva allora giusta e carica di promesse, una giusta ricompensa dopo una storia dolorosa.

Oggi in Sudafrica, in Angola o in Zimbabwe, una generazione passa il testimone, in contesti certamente molto diversi, ma in tutti e tre i casi il bilancio è amaro. E i nuovi dirigenti sono portatori di speranze di “un nuovo inizio”, non facili da soddisfare.

Un nuovo inizio in Sudafrica?
Il Sudafrica, il paese più importante del continente, ha appena vissuto un momento politico rilevante, con la nomina del presidente dell’African national congress (Anc), il partito che Nelson Mandela ha portato al potere durante le prime elezioni democratiche nel 1994, e che è rimasto in carica da allora. Il presidente dell’Anc ha ottime possibilità di diventare presidente del Sudafrica, probabilmente anche prima della scadenza prevista del 2019.

Il congresso dell’Anc, il 16 e 17 dicembre ha preferito Cyril Ramaphosa a Nkosazana Dlamini-Zuma, ex presidente dell’Unione africana ma anche ex moglie del presidente sudafricano Jacob Zuma. Di fatto, la scelta era tra la continuità o la rottura con quest’ultimo, i cui nove anni di presidenza del paese hanno rappresentato un disastro su tutti i fronti, sia per l’Anc sia per il paese.

Solo dieci anni separano Jacob Zuma, 75 anni, da Cyril Ramaphosa, che ne ha 65. Ma i due uomini non potrebbero essere più diversi, per personalità e percorso, il che alimenta le speranza di un governo molto diverso in futuro.

Jacob Zuma ha vissuto la dura vita di un combattente dell’Anc, il più vecchio movimento politico africano, rimasto in clandestinità per tre decenni. Autodidatta, incarcerato per dieci anni ai lavori forzati di Robben Island, al largo di Città del Capo, poi dirigente in esilio dell’Anc fino alla liberazione di Nelson Mandela nel quadro della fine negoziata dell’apartheid alla fine degli anni novanta, è diventato presidente dopo aver messo in minoranza il successore di Mandela, Thabo Mbeki.

Un paese contro i suoi liberatori
Il suo regno è stato segnato da una serie di scandali, di storie di corruzione, di mancanza di senso etico e di cattiva gestione economica, che lasciano oggi un paese indebolito, screditato a livello internazionale e pronto a votare per la prima volta contro i suoi liberatori.

Un libro uscito appena qualche settimana fa, The president’s keepers, del giornalista investigativo Jacques Pauw, descrive gli sprechi e la corruzione del più stretto entourage di Zuma, compreso quello di suo figlio, e gli sforzi dei servizi di sicurezza sudafricani per proteggerlo, con sprezzo della legge e dell’interesse pubblico. Segno della potenza dell’eredità di Mandela, il libro è uscito in Sudafrica nonostante varie minacce, e ha finito per discreditare definitivamente il “coccodrillo di Nkandla”, com’è soprannominato Zuma, nomignolo che richiama il suo villaggio natale in terra zulu.

Quanto a Cyril Ramaphosa, ha anch’egli un passato da liberatore impeccabile, ma di diverso tipo. Avvocato di formazione, si è trovato proiettato alla testa del sindacato dei minatori neri nel periodo chiave della lotta all’apartheid, negli anni ottanta e novanta, e ha avuto un ruolo chiave nei rapporti di forza col potere bianco. Durante la transizione, è stato scelto da Nelson Mandela per negoziare gli accordi con la leadership bianca, che hanno permesso le prime elezioni libere e la fine dell’apartheid.

Cyril Ramaphosa è diventato milionario, ottenendo un successo invidiato e talvolta controverso

Prescelto da un anziano Nelson Mandela per diventare il suo delfino, è stato messo da parte dai dirigenti dell’Anc, che gli hanno preferito Thabo Mbeki, figlio di un compagno di prigionia di Madiba e uno dei leader del movimento in esilio.

Cyril Ramaphosa ha allora deciso di lasciare la politica e dedicarsi agli affari, approfittando del black empowerment, l’ascesa dei neri ai vertici dell’economia per controbilanciare un potere economico totalmente bianco. L’uomo è diventato milionario, ottenendo un successo invidiato e talvolta controverso, come durante il massacro dei minatori neri a Marikana, in una miniera di cui era uno degli amministratori.

Sarà compito di Cyril Ramaphosa ripulire le stanze del potere dalla corruzione diffusa da Jacob Zuma, e rilanciare un’economia penalizzata dagli sprechi, che spaventa gli investitori e minaccia i progressi ottenuti nel corso di vent’anni. Vorrà farlo? Potrà farlo? Non avrà vita facile, visto che non gli mancano i nemici dentro lo stesso Anc e i detrattori all’esterno. Tuttavia, resta l’ultima speranza per molti sudafricani, perché il loro paese resti fedele all’eredità di libertà di Nelson Mandela, e alle speranze di prosperità.

La fine di Mugabe in Zimbabwe
Poco più a nord, in Zimbabwe, il primo e unico presidente che l’ex Rhodesia bianca abbia conosciuto dai tempi della sua indipendenza nel 1980 è stato allontanato dal potere in maniera relativamente tranquilla dal suo esercito e dagli ex combattenti della guerra di liberazione.

A 93 anni il despota ormai invecchiato aveva avuto il torto di voler nominare come proprio successore la sua seconda moglie, Grace (soprannominata Grace Gucci per la sua passione per i marchi di lusso), quando questa non aveva né la legittimità né le qualità necessarie.

È stato l’ex vicepresidente Emmerson Mnangagwa, braccio destro di Mugabe da sempre, di vent’anni più giovane, a prendere il suo posto, col compito di organizzare le elezioni presidenziali nel 2018. Il nuovo presidente dovrà evitare di effettuare una svolta autoritaria come quella del suo mentore, lui che è stato spesso l’esecutore degli incarichi più sporchi del presidente, in particolare durante la sanguinosa repressione del Matabeleland, all’inizio del loro lungo regno nel 1983, e che ha provocato circa 20mila morti nella regione del rivale di Mugabe, Joshuna Nkomo. Gli abitanti dello Zimbabwe sperano nel rinnovamento, ma non c’è niente di sicuro.

Dove sono i soldi del petrolio angolano?
Infine, il terzo paese a conoscere un cambiamento è l’Angola, ex colonia portoghese della costa atlantica, ricco di petrolio, e guidato dal Movimento popolare per la liberazione dell’Angola (Mpla) fin dalla sua indipendenza nel 1975.

Il leader storico dell’Mpla, Agostinho Neto, è morto poco dopo che il paese ha ottenuto l’indipendenza in circostanze drammatiche, in seguito a una guerra civile tra movimenti armati rivali, alimentata dal Sudafrica, dallo Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) di Mobutu Sese Seko, e perfino dal gruppo petrolifero Elf, che mirava alle riserve di petrolio dell’enclave di Cabinda e aveva strumentalizzato il suo movimento di liberazione, il Flec (Fronte di liberazione dell’enclave di Cabinda).

Protetto da un contingente cubano, l’Mpla ha finito per imporsi, guidato da un ex ingegnere formatosi in Unione Sovietica, José Eduardo dos Santos, successore designato di Agostinho Neto. Dos Santos sarebbe poi restato 38 anni al potere, prima di cedere il testimone lo scorso agosto, a 74 anni, al suo ministro della difesa, Joao Lourenço, di dieci anni più giovane, ex generale e anch’egli formatosi in Unione Sovietica.

Come spesso accade, il denaro facile del petrolio e dei diamanti ha generato una corruzione mostruosa

Difficile immaginare uno spreco maggiore di quello avvenuto negli ultimi quattro decenni in Angola, un paese con le risorse petrolifere di un emirato del Golfo, di diamanti e di abbondanti terreni, degni delle agricolture più ricche al mondo. Ma come spesso accade, il denaro facile del petrolio e dei diamanti ha generato una corruzione mostruosa, e sprechi che non facevano troppo clamore quando il petrolio era a cento dollari al barile, ma che trasformano la situazione in una catastrofe quando il greggio perde metà del valore, come che sta accadendo.

L’eredità di Dos Santos avrebbe potuto essere positiva se si fosse ritirato prima, dopo aver messo fine alla guerra civile e aver accettato una relativa normalizzazione politica. Ma l’uomo si è aggrappato al potere, arricchendo dirigenti predatori, a cominciare dalla sua stessa famiglia, piazzando suo figlio José alla testa del fondo sovrano e sua figlia Isabel a capo della compagnia petrolifera nazionale, facendone così la donna più ricca d’Africa.

Con una delle sue prime decisioni da quando è salito al potere, il nuovo presidente, anch’egli del Mpla, ha deciso di allontanare la figlia del suo predecessore dalla compagnia petrolifera Sonangol, dando così il segnale di avvio di un atteso “repulisti”. Si tratta quindi della sostituzione di una classe dirigente con un’altra, di una “famiglia regnante” con una nuova? Oppure ha davvero intenzione di porre fine agli sprechi e alla corruzione che fanno dell’Angola un paese ricco di risorse, ma povero?

In tutti e tre i casi, il cambio della guardia avviene all’interno del sistema. Nessuna rivoluzione, ma un cambiamento di uomini e di epoca, qualunque sarà l’esito, con popolazioni impazienti, che esprimono con mezzi diversi il loro disgusto verso le classi dirigenti predatrici.

Se questi tre nuovi dirigenti non riusciranno a trasformare l’attività di governo, a soddisfare un minimo le aspirazioni di popolazioni stanche di decenni di abusi e di promesse non tenute, si scontreranno con opposizioni più forti e più radicali. I primi risultati sono attesi per il 2018. Non avranno davanti a sé vari decenni, come accaduto per i loro predecessori alla fine delle guerre di liberazione.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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