C’è un brano strumentale che per me nel corso degli anni è diventato una specie di talismano. Lo ha composto Stefano Pilia e si intitola Stand behind the man behind the wire. Dura 3 minuti e 24 secondi e procura allo stesso tempo una sensazione ineffabile di ricorsività e di liberazione. Mi fa sempre pensare a come dev’essersi sentito Houdini mentre stava per liberarsi dai lucchetti e dalle gabbie in cui lui stesso si era costretto: mentre le dita si muovevano freneticamente per cercare la via d’uscita, allo stesso tempo provava la paura e la malinconia del ritorno in superficie. Come quando hai l’idea che la salvezza sia inevitabile, che tornerai al mondo, eppure una parte di te vuole restare nascosta.

Tutti i brani di quel disco ruotava attorno a una luminosità dimessa e quasi salvifica, o falsamente salvifica: non a caso s’intitola Blind sun new Christology.

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A sette anni di distanza Stefano Pilia è tornato con un nuovo album, Spiralis aurea, e mi chiedo quale movimento susciterà questa volta. Ci arrivo alla fine, alla tredicesima traccia, Aurea pt III, quando l’unica cosa che riesco a vedere è qualcuno che cammina in una selva ma è così immerso nella consapevolezza di sé da dimenticarsi che quella è selva, arrivando a disintegrarla.

È forse dai tempi di The sun roars into view di Colin Stetson, altro brano del 2015, che non sentivo la bellezza di un paesaggio sonoro staccato a piccoli morsi, in cui si procede con fame, nella convinzione che sotto la melodia, una volta lacerata la pelle, ci sia un cosmo e che per un attimo tu ne sia il centro libero e perfetto. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1458 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati