“Il raggio laser della sua attenzione”: il compositore e musicologo Carlo Boccadoro usa queste parole per descrivere l’approccio di Franco Battiato agli strumenti musicali durante gli anni sperimentali tra il 1974 e il 1978, quando Battiato era ancora più persuaso della natura transitoria dei dischi, e infastidito dall’ipotesi di storicizzare se stesso. In realtà erano molte le cose che gli davano fastidio in quel periodo: l’atonalità di dovere, il rifiuto per qualsiasi cosa porti lo stigma della tradizione, l’avanguardia per l’avanguardia, che se ne sta soprattutto tra Italia, Stati Uniti e Germania mentre Battiato voleva allargare il mondo.

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Nel saggio Cafè Table Musik (La Nave di Teseo), Boccadoro fa levitare in aria il Battiato più lontano dalla forma canzone, un compositore irrequieto che nel libretto allegato a Clic del 1974 scriveva: “Se io, per esempio, scrivo un pezzo e lo sottopongo al tuo ascolto, dal momento che siamo diversi e molto anche (per interessi, per educazione, per neuroni eccetera eccetera) la mia musica, dentro il tuo io, cambia completamente. A questo punto sei tu il compositore, io ti ho fornito solamente il materiale sonoro”.

È una dichiarazione piena di grazia – “la mia musica dentro il tuo io” – lontana dall’egotismo autoriale, come sottolinea Boccadoro, ma è anche una forma severa, in cui Battiato si dà una disciplina: scrivere solo quello che sente, suonare solo quello che gli filtra dai sensi, a prescindere da ciò che ne farà l’altro. Separarsi dall’altro senza mai smettere di riconoscerlo: quanto ci manca un poeta così. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1461 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati