Figlio unico. Un’adolescenza solitaria, un fidanzamento di dieci anni, un matrimonio (etero). Poi a trentacinque anni un uomo entra nella mia vita e la sconvolge: separazione, coming out e finalmente la sensazione di poter parlare ai miei genitori. Invece mi sono improvvisamente ritrovato quattordicenne. “Dove vai?”, “con chi?”, con musi e mutismi se vedo persone che non conoscono. Ho sbagliato qualcosa? Sto pensando di cambiare lavoro e città. Possibile che a settant’anni, sapendo che il proprio figlio è finalmente sereno, non riescano a godersi la pensione con leggerezza? –Francesco

Il tuo senso di frustrazione è comprensibile. Trovarsi a divorziare e fare coming out a trentacinque anni è già un’esperienza faticosa, ed è paradossale che a rendere tutto più difficile siano i tuoi genitori, che più di tutti dovrebbero avere a cuore il tuo benessere.

Quando io ho fatto coming out mia madre mi ha creato mille problemi, perché secondo lei nella vita avrei incontrato tante difficoltà. Dopo qualche anno le ho detto: “Per ora, l’unica difficoltà che ho incontrato sei tu”. Non credo che tu debba cambiare vita per via del loro rifiuto, perché permetteresti alla loro omofobia di definire il tuo percorso.

Rispetto a un quattordicenne, il tuo essere adulto ti dà un grosso vantaggio: sei indipendente. È cruciale che tu abiti da solo e che non dipenda economicamente da loro, così puoi costruirti la vita come preferisci. E poi metti in chiaro che, se non sono pronti a superare i loro pregiudizi e a sostenerti, tu finirai per allontanarti. Perché meriti di essere felice.

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Questo articolo è uscito sul numero 1487 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati