Ci sono storie che, a parlarne con il formulario corrente, smarriscono la loro sostanza. “È un thriller ben congegnato”. “È un romanzo di formazione”. “È un romanzo storico”. “Non ha un rigo in più né uno in meno”. “Quant’è efficace la ricostruzione d’ambiente”. “Qui è ben colto lo spirito del tempo”. “Ah, la trama com’è incalzante”. “Ah, che bella lingua”. Sì, a volte parliamo di libri in modo da perdere d’occhio proprio ciò che ci ha commossi. Per esempio, l’affetto intenso dell’autore per il personaggio che ha inventato: un giovanissimo essere umano – mettiamo – che trae la sua forza non tanto e non solo dalla buona esecuzione della vicenda, ma dalla cura, dall’amore e anche dall’ansia che chi racconta ha provato costruendolo rigo dietro rigo. Quell’amore, quella cura, quell’ansia, noi le riconosciamo, sono le stesse che nutriamo per chiunque ci stia veramente a cuore. E la forza del libro, senza dare nell’occhio, viene proprio da lì. Ce la farà, questo ragazzo, darà uno sbocco al desiderio e alla gioia di vivere, imparerà a usare la sua forza e le sue fragilità, starà nel mondo con mente libera, con competenza, anche nei momenti più duri? Un po’ di questo amore-angoscia d’autore – che quando è autentico è amore-angoscia per le sorti di tutto il genere umano – si trova, tanto per fare un esempio, dentro La Fortuna (Feltrinelli 2022) di Valeria Parrella.

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Questo articolo è uscito sul numero 1469 di Internazionale, a pagina 12. Compra questo numero | Abbonati