Gli eventi delle ultime settimane nei territori occupati sembrano usciti dalla Bibbia. Tutto è impregnato di religione e fondamentalismo: la Spianata delle moschee (chiamata Monte del tempio dagli ebrei) a Gerusalemme est, la Tomba di Giuseppe a Nablus, in Cisgiordania, la scuola religiosa ebraica yeshiva di Homesh, i pellegrini, i fedeli, il Ramadan, l’agnello sacrificale, il tempio. Sembra una guerra religiosa presa direttamente dall’antico testamento.

Nonostante questo, la religione è solo un arredo scenico. I coloni e i loro sostenitori sono spinti da un ideale ultranazionalista alimentato da interessi immobiliari, a cui si aggiungono il male, la violenza e il sadismo, usati da queste persone e dalle autorità che hanno alle spalle. Le aspirazioni palestinesi invece sono sempre state nazionali: diritti, indipendenza, cacciata dell’occupante. C’è questo alla base del forte malcontento espresso da giovani palestinesi fuori controllo.

La destra israeliana ha etichettato il conflitto tra Israele e Palestina come una guerra tra musulmani ed ebrei, invece che come una guerra tra colonizzati e colonizzatori

La religione è usata da entrambe le parti solo come una scusa. Questa non è una guerra di religione, anche se in futuro potrebbe diventarlo.

Da tempo la destra israeliana ha etichettato il conflitto tra Israele e Palestina come una guerra religiosa tra musulmani ed ebrei. È molto più conveniente per gli ultranazionalisti presentarla così, anziché come una guerra tra colonizzati e colonizzatori, cioè per quello che realmente è.

Nelle guerre di religione non c’è spazio per il compromesso. O noi o loro. E se le cose stanno così, è una battaglia escatologica da fine dei tempi. O loro ci buttano in mare o noi li cacciamo nel deserto. Non c’è una terza via. In questo caso, tutto è lecito: l’espropriazione, le uccisioni, la distruzione e l’oppressione.

In una guerra religiosa tutto è permesso, perché l’unica soluzione possibile è totale e violenta. Si può dipingere una nazione che combatte per ciò a cui ha diritto come un paese che tenta d’imporre la propria religione sugli altri. I palestinesi come il gruppo Stato islamico. In quel caso, Israele starebbe combattendo una guerra per la sua stessa esistenza, con la giustizia totalmente dalla sua parte.

Naturalmente questa è propaganda. La maggior parte dei palestinesi non vuole vivere in un califfato, vuole solo libertà e dignità nazionale. Se questa è una battaglia per la libertà, un’altra lotta anticoloniale simile a quelle che l’hanno preceduta, il colonialismo deve rispettare i diritti nazionali del paese occupato per risolvere il problema. Cosa c’entra Israele con tutto questo? I coloni sono molto distanti da una simile mentalità, perché impedirebbe a Israele di fare tutto quello che vuole e riconoscerebbe ai palestinesi gli stessi diritti nazionali che hanno gli ebrei, non sia mai!

In entrambi i paesi negli ultimi anni c’è stato un aumento della religiosità e dell’estremismo. Questo processo ha travolto i palestinesi, che erano tra le nazioni arabe più laiche, e gli ebrei israeliani, la maggior parte dei quali si considerava laica.

La disperazione palestinese ha spinto molti giovani verso la religione. La moschea in molte delle loro comunità è l’unico luogo di ritrovo, e la moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme è il luogo nei Territori occupati in cui possono avere una certa sensazione di sovranità e indipendenza. Allo stesso modo tra gli ebrei è cresciuta la comunità ultraortodossa e vaste città haredì sono state costruite nei Territori occupati. La classe dirigente dei coloni inoltre è cresciuta. Ma questo non significa che il conflitto sia di natura religiosa. Era e rimane un conflitto di carattere nazionale.

I coloni fin dall’inizio usano la religione per i loro scopi. Il Park hotel di Hebron si trovava nel territorio dei nostri antenati, per questo è diventato di loro proprietà. La Tomba dei patriarchi, sempre a Hebron, appartiene solo a loro, e così ogni zolla di terra palestinese in Cisgiordania. Il vero obiettivo dei coloni è espellere i palestinesi dai territori. Vogliono semplicemente l’intero paese per sé.

Così come hanno fatto un uso cinico e disonesto della sicurezza per motivare i loro insediamenti, per giustificare il proprio desiderio di sovranità raccontano storie bibliche a se stessi e agli altri.

I palestinesi che lottano per la moschea Al-Aqsa o per Gaza non lo fanno nel nome della loro religione. Solo alcuni hanno questa motivazione, ma la maggior parte aspira a quello che tutte le altre società laiche vogliono per se stesse: uguali diritti nazionali o uno stato proprio.

Un rifugiato a Jenin non vuole la creazione di uno stato islamico, preferisce uno stato libero. Ma potrebbe sempre cambiare idea. Israele probabilmente farà tutto il possibile per spingerlo in quella direzione. ◆ fdl

Gideon Levy
è un giornalista del quotidiano israeliano Haaretz, dove è uscito questo articolo.

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Questo articolo è uscito sul numero 1458 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati